Una donna con un figlio in braccio in un campo per sfollati interni prevalentemente di etnia dinka a Mingkaman, Sud Sudan, 2014 (foto Ansa) @media only screen and (min-width: 501px) { .align_atf_banner{ float:left; } }

Ci si poteva scommettere lo stipendio, o la pensione, o la paghetta: alla fine la polemica contro il patriarcato, causa durevole di tutti i mali che affliggono le donne italiane (asserzione lunare e speculazione politica bieca, di cui ci occuperemo un’altra volta), è sfociata in polemica anticristiana.

Alla radice della versione europea del patriarcato ci starebbe la tradizione giudaico-cristiana, quella che subordina la donna all’uomo perché racconta che Eva fu creata da una costola di Adamo e fa dire a Gesù un’infinità di volte nel Vangelo: «Io e il Padre siamo una cosa sola», fino all’esortazione di rivolgersi a Dio nella preghiera con le parole «Padre nostro…». La madre e la donna tagliate fuori come irrilevanti.

Meglio Sartre di Galimberti

Si fa veramente fatica a capire in cosa rappresenterebbe un consolidamento del patriarcato (che certamente ha continuato ad essere ancora per molto tempo una forma culturale dominante, ma il come e il perché lo vediamo un’altra volta) un messaggio religioso che annuncia che una donna ha partorito Dio. Nel cristianesimo l’Emmanuele, il Dio-con-noi, assomiglia fisicamente alla madre che lo ha portato in grembo mentre non assomiglia a nessun padre di questo mondo. Ha preso la sua carne dalla sola carne di una donna.

Ne rimase ammirato persino Jean-Paul Sartre, che ne scrisse in Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non cristiani. Invece a Umberto Galimberti la cosa non fa né caldo né freddo, come ha potuto constatare chi ha ascoltato i suoi interventi nei quali mette sotto accusa anche il cristianesimo per la condizione subordinata della donna.

Nella missione di monsignor Mazzolari

Ma su tutta la faccenda della colpevolezza giudaico-cristiana in materia di oppressione delle donne mi ha risvegliato un ricordo l’incipit di un articolo di Maurizio Crippa sul Foglio, che è tutta una riflessione sulla scritta apparsa sul cartello di una manifestante dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin: «Non sono la costola di nessuno».

L’ultima volta che ho avuto modo di parlare della “costola di Adamo” con un gruppo di donne, essendo io l’unico maschio presente, è stato dodici anni fa. Non stavo visitando una libreria femminista o un centro sociale anarchico, ma un Centro di accoglienza per donne cacciate dal focolare domestico intitolato a santa Monica (la madre di sant’Agostino) a Rumbek, nel Sud Sudan alla vigilia dell’indipendenza dopo un’interminabile e sanguinosissima guerra di secessione. A istituire l’associazione e la comunità era stato il comboniano monsignor Cesare Mazzolari, prima amministratore apostolico e poi vescovo della diocesi di Rumbek, nel profondo della savana africana.

Prima che arrivassero i missionari comboniani, gli anglicani avevano gettato qualche seme di cristianesimo fra i dinka di quella e di altre regioni del Sudan. Quel che si vedeva in giro erano i primi germogli di vita cristiana, risultato di un secolo appena di seminagione di un terreno antropologicamente ostile a molti aspetti morali del cristianesimo come può essere quello di un popolo agro-pastorale come i dinka.

Alla mia domanda se i dinka, gente permanentemente coinvolta in sanguinose faide per furti di bestiame fra clan quando non era costretta a guerreggiare col governo islamista di Khartoum, avessero compreso il significato del messaggio cristiano, Mazzolari, che sarebbe morto di lì a due mesi colto da un malore mentre celebrava Messa, rispose con un sorriso sornione: «Vagamente lo hanno capito».

La scelta tra islam e cristianesimo

Io ero rimasto abbastanza frastornato dalla risposta che a una domanda molto simile mi aveva dato uno dei catechisti più anziani del posto. Avevo chiesto perché, potendo scegliere fra l’islam, che era la religione del governo, e il cristianesimo dei colonizzatori inglesi che avevano abbandonato il paese da più di mezzo secolo, i dinka avessero optato massicciamente (attaccato esclusivamente alla religione tradizionale restava solo un quarto di tutti loro) per la fede nel Dio trinitario. Dopo alcune spiegazioni teologiche non proprio convincenti circa una presunta somiglianza fra la teogonia dinka e quella cristiana, il canuto capo catechista se ne uscì con una giustificazione assolutamente sorprendente: «E poi nella nostra cultura l’omosessualità è totalmente inaccettabile, come nel cristianesimo!».

Era la prima volta che sentivo qualcuno definire l’islam troppo permissivo in materia di omosessualità. Chiesi lumi. «Possono dire quello che vogliono, ma noi abbiamo sofferto queste cose sulla nostra pelle», spiegò. Si riferiva in realtà al fatto, largamente dimostrato dalle cronache storiche, che i razziatori arabi e ottomani di schiavi africani (e i dinka sono stati fra le prede preferite della “tratta orientale”) avevano l’abitudine di sodomizzare i loro prigionieri prima di trasferirli fuori dal continente o nella sua parte settentrionale.

La lezione di Mary, Rachel ed Elisabeth

Molto più convincenti furono le risposte di Mary, Rachel ed Elisabeth, tre donne che incontrai accompagnato da sister Monica, una suora africana che mi fece da interprete, nel cortile dell’associazione. La prima era stata cacciata di casa dal marito perché si era ammalata di lebbra, e aveva perduto tutte le dita di una mano; la seconda aveva contratto la poliomielite alle gambe da piccolina, si trascinava, e in famiglia la consideravano una maledizione divina; la terza era una vedova risposata col fratello del marito defunto (secondo la pratica del levirato comune a molte etnie africane): costui la picchiava abitualmente (anche dopo averla messa incinta) e alla fine l’aveva mandata via di casa senza alcun motivo apparente tenendo per sé il bambino.

Frequentando l’associazione avevano imparato a produrre creme e saponi da un frutto tropicale, a cucire a macchina, persino a leggere e a scrivere. Rachel parlava anche un po’ di inglese. Erano passate dallo statuto di proprietà di valore inferiore a quello delle vacche con cui erano state comprate dai mariti a quello di persone a pieno titolo.

Chiesi loro se presso il centro seguissero anche un percorso di formazione religiosa. «Certamente. Leggiamo insieme brani della Bibbia e li commentiamo». «E qual è il brano che vi ha colpito di più?», chiesi. Risposero tutte insieme eccitatissime: «La creazione di Adamo ed Eva! Quando Dio crea l’uomo e la donna!». «E cosa c’è di così formidabile nel racconto della creazione dell’uomo e della donna?», chiesi un po’ stupito della loro esaltazione. «C’è che Dio prende un po’ di fango, ci soffia sopra e Adamo, il primo uomo, prende vita. Poi lui si addormenta, Dio stacca una delle sue costole, e con quella crea la donna!». Erano infervoratissime, ma io ancora non capivo: «Sì, ma cosa c’è di così meraviglioso in questa storia?». «C’è che anche noi donne siamo esseri umani! Siamo fatte della stessa carne dei maschi!».

Nella Weltanschauung tradizionale dei dinka, infatti, gli esseri viventi sono posizionati secondo una piramide gerarchica: in cima ci stanno gli umani di sesso maschile, subito sotto di loro le mucche, ricchezza materiale e spirituale di ogni lignaggio familiare, al terzo posto ci sono le donne, che possono essere prese in spose pagando una dote che consiste in capi di bestiame. Il cristianesimo ha portato una rivoluzione antropologica riguardante la condizione della donna: maschi e femmine sono portatori della medesima dignità, perché Dio li ha fatti delle stesse sostanze. Una rivoluzione cristiana nel Sud Sudan e in tanti altri sud del mondo, oggi come ieri. Prendi su e porta a casa, Galimberti.

@RodolfoCasadei

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La fortuna di essere “costola di Adamo”

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29.11.2023
Una donna con un figlio in braccio in un campo per sfollati interni prevalentemente di etnia dinka a Mingkaman, Sud Sudan, 2014 (foto Ansa) @media only screen and (min-width: 501px) { .align_atf_banner{ float:left; } }

Ci si poteva scommettere lo stipendio, o la pensione, o la paghetta: alla fine la polemica contro il patriarcato, causa durevole di tutti i mali che affliggono le donne italiane (asserzione lunare e speculazione politica bieca, di cui ci occuperemo un’altra volta), è sfociata in polemica anticristiana.

Alla radice della versione europea del patriarcato ci starebbe la tradizione giudaico-cristiana, quella che subordina la donna all’uomo perché racconta che Eva fu creata da una costola di Adamo e fa dire a Gesù un’infinità di volte nel Vangelo: «Io e il Padre siamo una cosa sola», fino all’esortazione di rivolgersi a Dio nella preghiera con le parole «Padre nostro…». La madre e la donna tagliate fuori come irrilevanti.

Meglio Sartre di Galimberti

Si fa veramente fatica a capire in cosa rappresenterebbe un consolidamento del patriarcato (che certamente ha continuato ad essere ancora per molto tempo una forma culturale dominante, ma il come e il perché lo vediamo un’altra volta) un messaggio religioso che annuncia che una donna ha partorito Dio. Nel cristianesimo l’Emmanuele, il Dio-con-noi, assomiglia fisicamente alla madre che lo ha portato in grembo mentre non assomiglia a nessun padre di questo mondo. Ha preso la sua carne dalla sola carne di una donna.

Ne rimase ammirato persino Jean-Paul Sartre, che ne scrisse in Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non cristiani. Invece a Umberto Galimberti la cosa non fa né caldo né freddo, come ha potuto constatare chi ha ascoltato i suoi interventi nei quali mette sotto accusa anche il cristianesimo per la condizione subordinata della donna.

Nella missione di monsignor Mazzolari

Ma su tutta la faccenda della colpevolezza........

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