Fiorella Mannoia (Ansa) @media only screen and (min-width: 501px) { .align_atf_banner{ float:left; } }

L’impegno sociale, insegnava Nicolás Gómez Dávila, è roba da prostitute.

E spesso, lungo il triste viale del tramonto, dove la luce morta di carriere ormai finite spande bargigli che vorrebbero rivitalizzare il senso stesso dello stare al mondo, ecco avanzare gli alfieri della coscienza civica, artisti che si impegnano con furia solenne ad aprire le coscienze come scatolette di tonno e a ficcarci dentro l’impegno sociale, certo, ma soprattutto il titolo del loro ultimo disco.

Ed è così che dopo album live, album di inediti editi in realtà prima in Kazakistan e spacciati poi per geniali parti della creatività a beneficio del mercato interno italico di fan a corto di internet e di motori di ricerca, gli artisti scoprono che la cronaca nera non è più solo scintilla di ispirazione ma essa stessa prodotto da vendere alle masse catodicamente trepidanti.

Ogni caso tragico, ogni sussulto agonico, ogni lacrima si fa occasione per vendere in primis nomi di celebrità dimenticate.

Pattume post-etico

La polvere sedimentata sulla inconsistenza della propria arte viene spazzata via dai colpetti ben assestati della invettiva, della Canossa inginocchiata, come ha fatto ad esempio Francesco Renga che ha chiesto “scusa”, così, di colpo.

Scusa per la morte della povera Giulia.

Come se si chiedesse convinta scusa per ogni essere umano ammazzato.

Per ogni tragedia.

Per ogni vita infranta.

Per ogni dolore.

Le scuse che implicano una diretta partecipazione emotiva o empirica al fatto avvenuto, le scuse che sono qualcosa di intimo, prezioso, quasi metafisico, rifluiscono a post da social e a pavloviana strategia di marketing.
Artisti che non raccolgono più sensazioni, non veicolano messaggi, ma infiocchettano pattume post-etico selezionando accuratamente il caso tragico del giorno, “dimenticandosi” per via tutte le altre donne, tutti gli altri uomini, uccisi, che non hanno meritato post indignati, scuse, o lacrime artificiali inoculate negli occhi a forma di dollaro.

Surfisti della disperazione

Piero Pelù scrive che si vergogna di essere un uomo, mentre in realtà potrebbe limitarsi a vergognarsi di essere Piero Pelù.

Senza chiamare in causa in punta di generalizzazione chi magari le donne le ha amate, difese, protette, accudite, valorizzate.

E invece.

Si produce rumore di fondo, caos paludoso, raccolta differenziata del degrado morale, in cui si assemblano nell’umido di carriere al crepuscolo emozioni, vecchi successi rimescolati e rinominati e con versi sbianchettati in fretta e furia, tanto per restare sulla cresta dell’onda di fango.

Surfisti della disperazione resa commercio, vendita del proprio ego, in un grigio arcobaleno di narcisismo necrofilo.

Il Nazareno della via Gluck

Adriano Celentano ci impone la sua riscrittura di una preghiera. Ave Maria.

«Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi uomini assassini» ha scritto sulla sua pagina Instagram.
Riedizione social dei Re Taumaturghi, parola poggiata sulla testa delle masse per emendarle dal peccato del patriarcato omicida, omnia munda mundis ma in fondo in fondo omnia munda immunda, fantozziana allucinazione mistico-religiosa sull’asse della traversa con una deriva impazzita di ego totemico, innalzato sull’altare della autopromozione spicciola.

Celentano ci aveva già abituato bene, cioè malissimo, in tema.

Sin dai tempi di Joan Lui, aveva trasformato la logica da “è morto lo zio Lazzaro” in agenda-setting per una incarnazione cristologica in assenza di Cristo.

Il Nazareno della via Gluck spruzzato di new age e buonsenso che al confronto il Generale Vannacci diventa Cioran.

E questo Adriano-Cristo new age che prega la Madre celeste, questo profeta con al posto della corona di spine il telecomando o la sua pagina Instagram, ci dice che dobbiamo vergognarci e che siamo assassini e che la Vergine celeste deve assolverci.

Me lo immagino. “Come posso suonare brillante?”, mentre ciabattava per casa in attesa della illuminazione ierofanica.

E questa è arrivata, ma non come lui credeva da Maria ma da Nostra Signora dei Narcisisti, delle rockstar senza rock e con tanto, troppo tempo a disposizione.

Musica ed elogio funebre

C’è chi poi introietta direttamente nello show l’ago nero della cronaca.

Elodie, con la sua teatrale richiesta di un minuto di silenzio, interrompe il concerto a Napoli e con questo semplice gesto da evangelista pop fa penetrare la memoria della povera ragazza uccisa non nelle menti dei suoi fan ma solo nei meccanismi di intrattenimento.

Paghi il biglietto, acquisti musica ed elogio funebre.

Fiorella Mannoia ha riscritto direttamente un suo pezzo. «Vi diremo un altro… no».

Durante un concerto. Non si butta via niente, specie in tempi di granuloso hype con gli occhi inumiditi dal pianto.
Costume risalente e non solo italico. Ci aveva già pensato Elton John che ha furbescamente riadattato una sua canzone, in origine dedicata a Marilyn Monroe, facendola divenire la nuova “Candle in the Wind”, ad uso funerario in memoria di Diana Spencer, con la semplice sostituzione del nome della defunta all’interno del testo.

Dopo il funerale, era uscito il singolo in compact disc. Sbandierato e venduto, anzi vendutissimo, perché fece registrare un autentico record polverizzando le vendite della versione originaria.

Cristopher Lasch ci ha lasciato memorabili considerazioni sulla fenomenologia della cultura del narcisismo, ma nemmeno lui era riuscito a prevedere in toto questa deriva apocalittica da postal market dei buoni sentimenti e dei cadaveri.

Ormai siamo oltre.

QOSHE - Nostra Signora dei Narcisisti - Andrea Venanzoni
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Nostra Signora dei Narcisisti

14 0
27.11.2023
Fiorella Mannoia (Ansa) @media only screen and (min-width: 501px) { .align_atf_banner{ float:left; } }

L’impegno sociale, insegnava Nicolás Gómez Dávila, è roba da prostitute.

E spesso, lungo il triste viale del tramonto, dove la luce morta di carriere ormai finite spande bargigli che vorrebbero rivitalizzare il senso stesso dello stare al mondo, ecco avanzare gli alfieri della coscienza civica, artisti che si impegnano con furia solenne ad aprire le coscienze come scatolette di tonno e a ficcarci dentro l’impegno sociale, certo, ma soprattutto il titolo del loro ultimo disco.

Ed è così che dopo album live, album di inediti editi in realtà prima in Kazakistan e spacciati poi per geniali parti della creatività a beneficio del mercato interno italico di fan a corto di internet e di motori di ricerca, gli artisti scoprono che la cronaca nera non è più solo scintilla di ispirazione ma essa stessa prodotto da vendere alle masse catodicamente trepidanti.

Ogni caso tragico, ogni sussulto agonico, ogni lacrima si fa occasione per vendere in primis nomi di celebrità dimenticate.

Pattume post-etico

La polvere sedimentata sulla inconsistenza della propria arte viene spazzata via dai colpetti ben assestati della invettiva, della Canossa inginocchiata, come ha fatto ad esempio Francesco Renga che ha chiesto “scusa”, così, di colpo.

Scusa per la morte della povera Giulia.

Come se si chiedesse........

© Tempi


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