Il Sud non può rimanere senza siderurgia. L’Italia non può rinunciare all’acciaio. Diciamolo chiaro: piaccia o meno, se vogliamo restare nel novero delle potenze industriali, l’ex Ilva di Taranto deve continuare a produrre. Mentre la sinistra inchioda il Parlamento a una contesa surreale sul saluto romano, ciò che accade in questi giorni e in queste ore è la conseguenza di una Nazione rimasta ostaggio per anni dell’ideologia della decrescita, di un ambientalismo giacobino, di una magistratura ideologizzata e di politici irresponsabili: un mix tossico in grado di provocare solo sciagure. Di fronte all’ennesima crisi del complesso siderurgico, ieri il ministro Adolfo Urso ha assicurato che l’Esecutivo è «fermamente» in campo: «Riprenderemo in mano la situazione dopo i disastri che sono stati realizzati dai Governi precedenti», ha promesso. È evidente che un socio privato è necessario, a patto però che abbia interesse a produrre a Taranto e ad investire soldi veri. L’Italia ha una tradizione siderurgica d’eccellenza a livello mondiale ed è una vergogna che l’acciaio debba rappresentare per la collettività nazionale un problema, un onere da accollarsi anziché una risorsa e un punto di forza, come accade ovunque ci siano produzioni strategiche di questo tipo. Troppi hanno dimenticato che l’Italia è una Nazione industriale. Noi costruiamo e vendiamo macchine. E le macchine si fanno con l’acciaio. I guai dello stabilimento di Taranto, che molti a sinistra vorrebbero incamminare sulla stessa strada di Bagnoli, non originano da una crisi produttiva o di mercato. A partire dal 2012 è stato messo in opera un progressivo smantellamento per via giudiziaria, che in nome di un utopico risanamento ambientale da “tutto e subito” ha progressivamente depauperato quello che era un patrimonio nazionale. Per di più ostacolando anche la realizzazione delle misure di volta in volta adottate per rendere ambientalmente più sostenibile la produzione. Il centrodestra è chiamato ora a metterci una pezza (che ovviamente non sarà gratis) e a cercare di rilanciare questo tassello fondamentale della nostra economia nazionale (vale l’1,4% del Pil). La storia dell’Ilva è paradigmatica del perché una riforma della giustizia è così urgente: siamo gli unici al mondo ad aver lasciato che una grande acciaieria subisse espropri e commissariamenti giudiziali dei suoi impianti e dei suoi semilavorati, con Governi che si sono dovuti piegare alle impugnative togate ogni qualvolta provavano a porre un freno ai sequestri preventivi. Tutto ciò, assieme all’incapacità di una politica minimamente in grado di farsi carico dei problemi e risolverli, ha prodotto una lenta e costosa agonia. Potenzialmente autosufficienti o quasi rispetto all’acciaio, siamo invece costretti ad importare dall’estero a prezzi più elevati. Lo stabilimento pugliese è non a caso proteso sul mare, proprio a significare l’obiettivo di servire non solo l’industria metalmeccanica italiana, ma anche per affermare la visione strategica di una produzione che è e resta cruciale per la nostra sovranità industriale. Ma in questo deve affrontare la concorrenza internazionale. Per tale ragione era scritto che un grande gruppo multinazionale, come ArcelorMittal, non poteva che avere interesse al ridimensionamento della nostra siderurgia e all’acquisizione del suo portafoglio clienti. È una roba che capisce anche un bambino, ma non coloro che, sull’onda del disastro provocato dalla demagogia giudiziaria, una volta estromessi i Riva, si sono poi trovati a consegnare l’ex Ilva a chi non aveva interesse a sviluppare l’acciaio italiano. Sta di fatto che ora, per garantirci un futuro, salvo clamorosi colpi di scena, è necessario trovare nuovi soci e capitali. Il Governo è impegnato per una soluzione: in ballo c’è il futuro di 10.600 dipendenti, oltre che dei lavoratori dell’indotto e di un pezzo di economia meridionale strategico per l’Italia intera. Altro che saluti romani.

QOSHE - Il disastro Ilva rivela il mix tossico che blocca l’Italia - Vincenzo Nardiello
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Il disastro Ilva rivela il mix tossico che blocca l’Italia

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12.01.2024

Il Sud non può rimanere senza siderurgia. L’Italia non può rinunciare all’acciaio. Diciamolo chiaro: piaccia o meno, se vogliamo restare nel novero delle potenze industriali, l’ex Ilva di Taranto deve continuare a produrre. Mentre la sinistra inchioda il Parlamento a una contesa surreale sul saluto romano, ciò che accade in questi giorni e in queste ore è la conseguenza di una Nazione rimasta ostaggio per anni dell’ideologia della decrescita, di un ambientalismo giacobino, di una magistratura ideologizzata e di politici irresponsabili: un mix tossico in grado di provocare solo sciagure. Di fronte all’ennesima crisi del complesso siderurgico, ieri il ministro Adolfo Urso ha assicurato che l’Esecutivo è «fermamente» in campo: «Riprenderemo in mano la situazione dopo i disastri che sono stati realizzati dai Governi precedenti», ha promesso. È evidente che un socio privato è necessario, a patto però che abbia interesse a produrre a Taranto e ad investire soldi veri.........

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