Suscita un sentimento d’amaro sorriso – anche se dovrebbe invitare al soddisfatto sghignazzo – la reazione altezzosamente indignata della pressoché intera sinistra italiana dinanzi alla decisione del già prefetto ed oggi ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, d’inviare una commissione ispettiva presso il comune di Bari per verificare se colà siano per avventura presenti i famigerati “tentativi d’infiltrazione mafiosa”. Il locale sindaco, l’onorevole Antonio Decaro, con insegne anche di presidente dell’Anci e di componente della Cassa depositi e prestiti, insomma un politico di razza, l’ha presa davvero male. Venendo meno al suo aplomb istituzionale, ha addirittura convocato una conferenza stampa dai toni tra il patetico ed il marziale. L’atto dicasteriale è stato interpretato come mera lotta politica – la destra che utilizza il potere governativo per mettere sotto scacco un autorevole sindaco della sinistra – ed il sindaco s’è detto sotto assedio. Da storico, oltre che da giurista, mi piace credere che quanto si verifica nell’ininterrotto fluire degli eventi, non accade mai invano. Lascia traccia e serve a comprendere. L’oscura legislazione detta “antimafia” è stata sempre ossequiata, quando ad essere sottoposti ad essa sono stati politici di rilievo ascrivibili alla destra, notoriamente sporca e corrotta; ora che s’arriva a sfiorare i lombi della nobile genia degli amministratori di sinistra, tutto pericola, il potere è abuso, le pecorelle son aggredite dal lupo nell’indifeso ovile. Ovviamente, non esprimo alcun giudizio sul Decaro. Ne so troppo poco. Ne so però parecchio della cosiddetta legislazione antimafia. Che consente d’azzerare imprese e annichilire onesti amministratori, sulla base del nulla. Ed a giudicare dal ripetersi rituale di questi annichilimenti – detto in chiaro, delle numerose amministrazioni comunali commissariate e dell’infinità d’imprese assoggettate alla fatidica interdittiva antimafia – non sembrerebbero raggiunti nemmeno grandi risultati: nel senso che il malaffare pare far gran riverenza a tanta solerzia prefettizia, continuando a creare aziende reputate contigue e ad eleggere amministratori collusi, se è vero che la catena delle inerdittive e dei commissariamenti è ininterrotta. Prima di capire cosa sono codesti commissariamenti, un’esperienza più generale dell’antimafia è recente: il sancta sanctorum di questa fiorente azienda della legalità è la Direzione Nazionale Antimafia: che, a giudicare da quel di cui siamo venuti a sapere: – la feconda industria del collezionismo di informazioni a fini di dossier utili al ricatto – non parrebbe punto un tempio dello Stato di diritto. In altri termini, proprio non c’è da fidarsi più di tanto. Ma torniamo alle interdittive ed ai commissariamenti. La chiave del sistema sono sintagmi dal significato labirintico: “tentativi d’infiltrazione mafiosa”, da accertarsi secondo il criterio del “più probabile che non”. Disponendo di queste formulette dalla straordinaria resilienza: son buoni a ricoprire ogni possibile realtà e, nelle mani del demiurgo dell’occasione (prefetti pro tempore ed in carriera, per le imprese e ministro dell’Interno, per i comuni), son docili alla bisogna. Ho veduto di casi in cui sono stati valorizzati precedenti – inesistenti – d’oltre venti anni addietro per affermare l’attualità del rischio d’infiltrazione nei confronti d’imprese che operavano pacifiche ed illibate; come ho assistito, allibito, sindaci assolutamente trasparenti, malmenati dall’automa dell’antimafia perché incapaci di debellare radicatissime delinquenze (ad esempio, Caivano) che ripetuti commissariamenti avevano ad essi consegnati intatte, per restituirle poi ai malcapitati successori sindaci, da ricommissariare tempo dopo. Concetti come “infiltrazione”, “più probabile che non”, “tutele avanzate” – sfido chiunque a dare significato affidabile a codeste sequele di parole, poste nelle mani di legulei che le riempiono dei più vari contenuti – sono semplicemente mezzi per fare quel che si vuole, sotto il riparo d’una pretesa copertura legislativa che non limita in nulla. Peggio ancora è che il giudice amministrativo competente ad esercitare il controllo, ha ormai da tempo declinato alla propria funzione: e, a sua volta riparandosi dietro il comodo usbergo della discrezionalità amministrativa che caratterizzerebbe la “tutela avanzata”, lascia tutto o quasi passare, anche quando il buon senso indurrebbe davvero ad indignarsi. Ma prevale quasi sempre il fascino del timbro prefettizio, per non dire del blasone ministriale. In tanti si beano nel riempir le fauci d’altri sintagmi dall’eccessiva vaghezza: “Stato di diritto”, “Democrazia liberale”, “Sovranità popolare”, eccetera eccetera. Le sentenze – è scritto nella loro epigrafe – son pronunciante “in nome del Popolo Italiano”. Or, non dico che debbano essere lettura per la sera, ma che almeno siano comprensibili agli esperti e che si peritino di dar risposta alle domande che al giudice sono rivolte, beh almeno questo sarebbe gradito. Ma non è così. Perché ci s’imbatte in reperti giurisprudenziali per intendere i quali non esito ad affermare non bastino laurea in giurisprudenza, una buona scuola di specializzazione, perché no?, un quarantennio di esperienza forense. In Italia – Paese autoritario, ma del tutto privo d’un’autorità ordinante – s’è ingenerata una perversa situazione in ragione della quale è possibile qualsivoglia arbitrio senza alcuna possibilità d’ottenere tutela effettiva. Cosicché, com’è ovvio, gli arbitrii crescono, come sempre quando manca un controllo rigoroso. Ed il risultato complessivo è che a farne le spese, non di certo è il malaffare – che s’organizza bellamente e senza soverchi problemi, soprattutto quando c’è arbitrio – bensì, in gran parte dei casi, malcapitati la cui disfatta lastrica le carriere dei ben noti professionisti dell’antimafia. Questo avviene quando lo Stato di diritto crea strumenti del tutto incontrollati, non per i servizi segreti, questi inevitabili, ma per l’organizzazione del viver quotidiano. A fare il puro trovi sempre il più puro che t’epura: distico di Pietro Nenni, acuto, sperimentato e nient’affatto ingenuo politico.

QOSHE - Quando lo Stato di diritto crea strumenti del tutto incontrollati - Orazio Abbamonte
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Quando lo Stato di diritto crea strumenti del tutto incontrollati

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25.03.2024

Suscita un sentimento d’amaro sorriso – anche se dovrebbe invitare al soddisfatto sghignazzo – la reazione altezzosamente indignata della pressoché intera sinistra italiana dinanzi alla decisione del già prefetto ed oggi ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, d’inviare una commissione ispettiva presso il comune di Bari per verificare se colà siano per avventura presenti i famigerati “tentativi d’infiltrazione mafiosa”. Il locale sindaco, l’onorevole Antonio Decaro, con insegne anche di presidente dell’Anci e di componente della Cassa depositi e prestiti, insomma un politico di razza, l’ha presa davvero male. Venendo meno al suo aplomb istituzionale, ha addirittura convocato una conferenza stampa dai toni tra il patetico ed il marziale. L’atto dicasteriale è stato interpretato come mera lotta politica – la destra che utilizza il potere governativo per mettere sotto scacco un autorevole sindaco della sinistra – ed il sindaco s’è detto sotto assedio. Da storico, oltre che da giurista, mi piace credere che quanto si verifica nell’ininterrotto fluire degli eventi, non accade mai invano. Lascia traccia e serve a comprendere. L’oscura legislazione detta “antimafia” è stata sempre ossequiata, quando ad essere sottoposti ad essa sono stati politici di rilievo ascrivibili alla destra, notoriamente sporca e corrotta; ora che s’arriva a sfiorare i lombi della nobile genia degli amministratori di sinistra, tutto pericola, il potere è abuso, le pecorelle son aggredite dal lupo nell’indifeso ovile. Ovviamente, non esprimo alcun........

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