Sono settimane che è in atto fiera opposizione della Magistratura sindacalizzata – l’Anm – per avversare con tutti i possibili strumenti una ragionevolissima iniziativa del Governo in carica: proporre l’introduzione di test psicoattitudinali per gli aspiranti all’ingresso in Magistratura. Si tratta d’un regime già presente in gran parte dei Paesi europei, che ha lo scopo di valutare chi è chiamato a disporre delle altrui esistenze con il proprio giudizio, per accertare non dia segni di – eccessivo – squilibrio: ad esempio, manifestando (non rare ed assai nocive) acute sindromi narcisistiche, maniaco-depressive, o difettando di senso di realtà, ammalandosi di protagonismo, o addirittura esternando sintomi paranoidi. Le reazioni sono state abbastanza scomposte, si minacciano scioperi, si denuncia l’immancabile attacco all’autonomia ed indipendenza della Magistratura, come se il sol fatto del ricoprirsi d’una toga salvaguardi i giudici dalle onnipresenti peripezie della mente umana. Già questo convincimento potrebbe dirla lunga: sentirsi al di sopra del resto del genere umano risponde a ben note sintomatologie. Lecito dubitare di psichiatria e psicologia – Foucault docet – ma, nel bene come sempre nelle cose umane, è tutto quanto di scientifico disponiamo per valutare la mente umana. Ironia a parte, ci sono ragioni molto concrete e puntuali perché l’equilibrio, per la categoria dei giudici, costituisca una precondizione per l’esercizio della loro funzione assai più indispensabile di quanto non lo sia per altre, dove pure queste verifiche sono previste. Anzitutto va detto che il giudice è l’unico potere dello Stato che sentenzia: sentenziare significa affermare la parola ultima del diritto: e dunque affibbiare anni di carcere, spostare patrimoni, stabilire ciò che è lecito e ciò che non lo è. In altri termini, dire se si è persona per bene o un malfattore, da carcerare. A dirlo, con definitività non è né il Parlamento legiferando, né il pubblico amministratore: è il giudice che, dando parola alla legge attraverso la propria parola, dice le cose come stanno. Un’antica illusione vuole che il giudice ‘applichi’ la legge, senza metterci del suo. Quando poi ci si capita sotto, si comprende che le cose non stanno punto così: basti dire che su questioni analoghe, giudici diversi giudicano diversamente e diversamente nei differenti gradi di giudizio. Ciò dipende soprattutto da tre cose. La legge è fatta di parole e le parole s’interpretano attraverso altre parole, in un processo pressoché illimitato. In secondo luogo, quelle parole devono rivestire dei fatti – i fatti di causa – per assegnare ad essi torto o ragione: per dire se un tale ha ucciso o meno, ha rubato o no, è proprietario o meno d’un bene. Ed i fatti hanno la sgradevole caratteristica d’essere riottosi a lasciarsi docilmente ricondurre a parole uniformanti, hanno le loro irriducibili caratteristiche, le quali fanno sì che ogni qualvolta debbano esser descritti, qualcosa d’essi si perda nel trasfert linguistico: e, guarda un po’, a stabilire cosa lasciar perdere è sempre lui, il giudice, a farlo secondo il proprio criterio, assai personale, inevitabilmente. Ma poi c’è la terza è più grave difficoltà: i fatti in un processo vanno ‘provati’, con testimonianze, documenti, strumenti teconologico-scientifici e vario altro. Tutta questa complessa congerie di strumenti probatori assai di rado fornisce univoche indicazioni. Sicché, sia il codice di procedura penale, all’articolo 192, sia quello di procedura civile, all’articolo 116, affidano al giudice il compito di valutarli secondo il proprio ‘libero convincimento’, ‘prudente apprezzamento’ o come altro si voglia definirlo. In altri termini, a stabilire se tre persone che si sono incontrate in un bar stavano colà a concertare un delitto ovvero a sorseggiare un caffè – e non sto per nulla esagerando – è il giudice che ‘liberamente’ apprezzerà quel fatto e gli elementi di contesto in cui in esso s’inscrive per pervenire alle proprie conclusioni: erano tre furfanti che progettavano un efferato crimine, meritando 15 anni di reclusione, o tre buontemponi che lì menavano battute a caso, facendo apprezzamenti da caserma. Differenza non dappoco, assicuro. Alla conclusione il giudice perverrà con ‘libero apprezzamento’: detto altrimenti, utilizzando le categorie percettive, cognitive e di giudizio pratico che fanno parte del suo bagaglio psichico e che è andato formandosi nel corso della propria esperienza, nelle condizioni di contesto genetico-ereditario, familiare, sociale in cui ha potuto sviluppare le sue attitudini. Se è persona ‘sana di mente’, valuterà accettabilmente i fatti emersi nel corso del processo e produrrà una decisione tendenzialmente di buon senso; se è soggetto disturbato, corredato di riserve, frustrazioni, distorsioni di varia sorta, beh si può allora star certi che quella individuale condizione condizionerà terribilmente la decisione producendo conseguenze deleterie, non tanto per quel giudice, bensì per coloro che sono e saranno sottoposti al suo giudizio. Il discorso potrebbe continuare a lungo e con molte altre considerazioni ed implicazioni. Ma un fatto è dato: chi giudica deve essere (relativamente) sano di mente, deve avere una dote che nessuna competenza tecnica – l’unica che si presume d’accertare attraverso il concorso – è in grado di dare: l’equilibrio, la capacità tra più soluzioni di scegliere quella umanamente più appropriata, perché ad essere valutati sono fatti umani e ad essere interpretate sono regole per uomini. Si chiama ‘arte del giudicare’, un qualcosa che un disturbato non apprenderà mai, anzi, forte di coriacee certezze, nemmeno sospetterà esista alcunché al di fuori dei propri fermi convincimenti. Giudicate voi se tutto questo possa ledere l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura e non riguardi piuttosto quel che i giudici son chiamati a fare per la comunità dei cittadini.

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Magistratura, chi giudica deve essere sano di mente

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08.04.2024

Sono settimane che è in atto fiera opposizione della Magistratura sindacalizzata – l’Anm – per avversare con tutti i possibili strumenti una ragionevolissima iniziativa del Governo in carica: proporre l’introduzione di test psicoattitudinali per gli aspiranti all’ingresso in Magistratura. Si tratta d’un regime già presente in gran parte dei Paesi europei, che ha lo scopo di valutare chi è chiamato a disporre delle altrui esistenze con il proprio giudizio, per accertare non dia segni di – eccessivo – squilibrio: ad esempio, manifestando (non rare ed assai nocive) acute sindromi narcisistiche, maniaco-depressive, o difettando di senso di realtà, ammalandosi di protagonismo, o addirittura esternando sintomi paranoidi. Le reazioni sono state abbastanza scomposte, si minacciano scioperi, si denuncia l’immancabile attacco all’autonomia ed indipendenza della Magistratura, come se il sol fatto del ricoprirsi d’una toga salvaguardi i giudici dalle onnipresenti peripezie della mente umana. Già questo convincimento potrebbe dirla lunga: sentirsi al di sopra del resto del genere umano risponde a ben note sintomatologie. Lecito dubitare di psichiatria e psicologia – Foucault docet – ma, nel bene come sempre nelle cose umane, è tutto quanto di scientifico disponiamo per valutare la mente umana. Ironia a parte, ci sono ragioni molto concrete e puntuali perché l’equilibrio, per la categoria dei giudici, costituisca una precondizione per l’esercizio della loro funzione assai........

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