La partecipazione sempre più deludente degli elettori alle tornate per il rinnovo delle assemblee e dei presidenti delle Regioni ha spinto tanti commentatori ad interrogarsi sulle ragioni d’una così marcata disaffezione per l’esercizio del voto, fondamento d’ogn’altra forma d’organizzazione del potere pubblico. E la risposta comunemente data è alquanto scontata, quella della cosiddetta crisi della democrazia, ritenuta sistema di gestione degli interessi collettivi invecchiato, incapace d’esprimere contenuti sostanziosi e fattivi: un sistema in cui alla ritualità del momento elettorale, non corrisponde alcun effettivo contenuto legittimante per le dirigenze. Ora, che questi elementi concorrano a dar ragione di un processo d’allontanamento della comunità dalle occasioni in cui può esprimere la ‘propria volontà’, è certamente esatto. Non c’è dubbio che se le percentuali di presenza alle urne stiano inesorabilmente – non è detto irreversibilmente – decrescendo, il fenomeno deve avere spiegazione in un certo qual progressivo distacco o, se si vuole, disincanto dell’elettore per tali percorsi democratici, avvertiti sempre più come formali e privi di effettiva sostanza – né più né meno che modi in cui la politica si autoperpetua. Ma, come sempre accade quando devono spiegarsi i percorsi complessi e controversi della postmodernità, un eccesso di semplificazione, di reductio ad unum, fa perdere molta parte dell’oggetto di cui si vuol conoscere qualcosa. A me sembra ci sia anche dell’altro, e di segno abbastanza diverso. In primo luogo, la ragione del disinteresse per il voto va ricercata anche altrove rispetto a quanto oggi si dice della democrazia italiana. È legge delle democrazie, moderne (assai distanti dall’archetipo greco al quale dicono d’ispirarsi, nato per piccole realtà composte di pochi capifamiglia) che in presenza di condizioni di ampio benessere si verifichi un distacco dal voto. Quando, cioè, non ci sono bisogni essenziali e stringenti da far valere condizionando ed esercitando pressioni sulle istituzioni, il cittadino in media si disinteressa della politica, considerandola a torto o a ragione come corrotta, noiosa, cosa insomma che non lo riguardi. Comincia a riguardarlo quando la realtà morde, le opportunità si riducono le necessità del quotidiano si fanno sentire senza rimedio. In questo caso, non solo l’elettore si sensibilizza ad ogni forma a sua disposizione per far valere e sentire le proprie domande ma, e circolarmente, nascono e si sviluppano forze politiche in grado d’offrirsi a rappresentare queste esigenze, facendone programma elettorale proprio e con questa mercanzia offrendosi al mercato del voto. All’evidenza, in Italia non s’è ancora a questo punto, perché una serie di misure elargite in variegatissima forma, hanno contenuto il malessere che certamente scorre ed hanno dato risposte, sia pur precarie e certamente incapaci di risolvere i problemi strutturali, altrettanto sicuramente in grado di spegnere i focolai di risentimento e protesa più avanzati. Ma c’è anche dell’altro. La crisi di legittimazione delle rappresentanze politiche nasce anche dalla difficoltà di rappresentare. Si sa che nelle società a far si che esistano soggetti rappresentati è necessario che esistano anche rappresentanti in grado di dar loro forma: vale a dire capaci di ergersi a tutori di distinti interessi, i cui fini siano in grado di portare nei luoghi dove di essi si decide. Ed oggi uno dei grandi problemi che si è costretti a vivere, è nella disgregazione sociale, nell’anonimato delle società complesse, nelle quali è difficile vedere, ancor più aggregare intorno ad obiettivo, quando invece prevale una sostanziale limitazione di ciascuno sul proprio presente – alias, personale ed egoistico interesse – non mediato da nessun processo culturale di elaborazione, da nessuna riflessione sul peso del passato nella costruzione della realtà: in una parola, si vive alla giornata senza riconoscere, attraverso consapevolezza della rilevanza della tradizione, l’indispensabile necessità di momenti di aggregazione sopraindividuale e di rinuncia in ragione di obiettivi più avanzati. Questo crea conseguenze non trascurabili. Sul piano della rappresentanza, c’è la difficoltà di rappresentare alcunché: se i cittadini non si riconoscano in qualcosa che li sopravanzi e che li renda funzionali al perseguimento di ragioni seconde oltre le primarie che li riguardano, è ben difficile che qualcuno possa parlare in loro nome, soprattutto dimostrando che lo sta facendo. Quel rappresentante sarà scetticamente considerato niente di più che il rappresentante, a sua volta, dei propri esclusivi interessi alla detenzione di quel che resta del potere. Ma soprattutto, quel rappresentante, non avendo dinanzi nient’altro che una congerie di individualismi egoistici indisponibili alla rinuncia in nome di obiettivi aggregatori, quel rappresentante sarà costretto a gestire la politica in una logica di continua elargizione, ben oltre quello che le condizioni di possibilità lo permettano. Privo com’è di momenti di legittimazione superiori – formatisi in vista di valori accomunanti, di idealità nate da concrete esigenze, adeguatamente processate – egli sarà costretto a legittimarsi, concedendo e dunque disastrando ulteriormente le risorse collettive. Insomma, deve dare per restare, non invece indirizzare con rigore e consapevolezza del limite. E questo porta conseguenze intuibili e sempre più negative sulla sopravvivenza della comunità, innescando un circuito, come si vede assai vizioso e difficile da spezzare, in assenza di un’autorevolezza che legittimi a decisioni razionali e coerenti.

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Le ragioni del disinteresse per la politica e per il voto

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18.03.2024

La partecipazione sempre più deludente degli elettori alle tornate per il rinnovo delle assemblee e dei presidenti delle Regioni ha spinto tanti commentatori ad interrogarsi sulle ragioni d’una così marcata disaffezione per l’esercizio del voto, fondamento d’ogn’altra forma d’organizzazione del potere pubblico. E la risposta comunemente data è alquanto scontata, quella della cosiddetta crisi della democrazia, ritenuta sistema di gestione degli interessi collettivi invecchiato, incapace d’esprimere contenuti sostanziosi e fattivi: un sistema in cui alla ritualità del momento elettorale, non corrisponde alcun effettivo contenuto legittimante per le dirigenze. Ora, che questi elementi concorrano a dar ragione di un processo d’allontanamento della comunità dalle occasioni in cui può esprimere la ‘propria volontà’, è certamente esatto. Non c’è dubbio che se le percentuali di presenza alle urne stiano inesorabilmente – non è detto irreversibilmente – decrescendo, il fenomeno deve avere spiegazione in un certo qual progressivo distacco o, se si vuole, disincanto dell’elettore per tali percorsi democratici, avvertiti sempre più come formali e privi di effettiva sostanza – né più né meno che modi in cui la politica si autoperpetua. Ma, come sempre accade quando devono spiegarsi i percorsi complessi e controversi della postmodernità, un eccesso di semplificazione, di reductio ad unum,........

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