Uno studio coordinato dall'eminente psicologo inglese Kenny Coventry, il cui principale interesse di ricerca è la relazione tra linguaggio e percezione, pubblicato sulla prestigiosissima rivista scientifica Nature Human Behaviour, ha evidenziato come tutte le lingue - ne sono state testate 29, sulle più di 7mila oggi esistenti nel mondo, dall'inglese all'italiano, dal norvegese al telugu, dal vietnamita allo tzeltal - condividono sul piano strettamente semantico, al di là dell'uso grammaticale che di loro se ne fa, due piccole e comunissime parole, "questo" e "quello", pronomi o aggettivi dimostrativi, a seconda della funzione sintattica ricercata, entrambe rifacentesi comunque "alle coordinate spaziali dell'enunciazione". Eggià lo spazio, quello sancito dalla vicinanza e dalla lontananza da chi parla, non sempre e non solo però puramente fisico. I risultati dello studio hanno rivelato che, nonostante le differenze di ortografia e pronuncia tra le varie lingue, il significato concettuale delle parole utilizzate per "questo" e "quello" resta lo stesso. In ogni lingua, esiste una parola per indicare gli oggetti che sono alla portata del parlante, come "questo", e una per quelli fuori portata, come "quello". Secondo l'autore principale dello studio questa distinzione potrebbe spiegare "l'origine evolutiva precoce dei dimostrativi come forme linguistiche". Già la Treccani, alcuni anni addietro, riportava come - "i dimostrativi svolgono un ruolo essenziale dal punto di vista pragmatico: essi contribuiscono alla costituzione di un centro di attenzione condiviso tra i partecipanti all’atto comunicativo, una delle funzioni centrali della comunicazione; tale importanza è evidente dal fatto che i bambini imparano a usare i dimostrativi molto presto". E concludeva - "la presenza dei dimostrativi nelle lingue del mondo è un tratto universale: come i nomi e i verbi, sono parte del vocabolario basico di ogni lingua". Sembra che tutto il processo comunicativo sia, pertanto, cominciato da lì: mani in tasca a confabulare o indice puntato a vaneggiare. Ma la ricerca inglese, pur nel suo impareggiabile fascino scientifico, a mio sommesso avviso, trascende il suo puro e freddo valore cognitivo. L'uomo si conosce e si riconosce, infatti, prima che in un mero processo fonemico - comprensibile od oscuro, anarchico o normato - nel qui e nel là, nel vicino e nel lontano, nel pieno e nel vuoto, nella comunione e nella solitudine. "Questo" è l'adesso, il socializzante, l'unico, il necessario, il vincolante, l'improcrastinabile. "Quello" è l'allora, il declinabile, il fluido, il deteriorabile, il facoltativo. Certo ogni "questo" è figlio di un "quello", ogni attiguità premette una lontananza, come ogni oggi uno ieri e ogni nuovo amore un vecchio, talvolta amaro, addio. Solo chi dimentica può costruire e solo chi distrugge sa anche edificare. Perciò l'archetipo del "questo" e del "quello", tanto brillantemente rilevato e scientificamente dimostrato dallo studio inglese, apre alla fine uno sguardo più profondo e lacerante sulla terrenità: riconosciamo prima di ogni altra cosa la prossimità di una relazione (benevola o meno che sia) e la sua fragile o pervicace evanescenza e, nel farlo, attribuiamo a questi due poli dello spazio (e del tempo) un significato che diventa morale. Come se parlassimo - alla fin fine - di inclusione ed emarginazione, di eguaglianza e disparità, di armonia e dispersione, di immanenza e trascendenza. La loro identificazione quale nucleo sussistente di personalità e di comportamento renderebbe l'uomo di tutte le razze e di tutte le latitudini solo un mero esecutore di asimmetrie che, a guardar bene, assomigliano, per loro stessa intrinseca natura, a pretestuose e insopportabili ingiustizie. Perchè smarrire (penosamente o gioiosamente) il presente con un "quello" quando è "questo" il tempo (felice o doloroso) di viverlo? Così è "codesto" - il terzo pronome dimostrativo dei cuori che parlano e di quelli che ascoltano - il vero lascito della ricerca inglese: riconosciamo pesi personali e sociali differenti a ciò che abbiamo vicino (nello spazio e nel tempo) rispetto a ciò che ci resta lontano, come se non fossero estremità bizzose della stessa astrazione, occasioni mancate di una sola, dolorosa provvisorietà. E in questa bipolarità consenziente e disperata c'è tutta la fragilità e l'assolutezza - ancora un binomio, ma meno effimero - dell'umana natura.

QOSHE - Quelle due parole comuni alle lingue (e ai cuori) di tutti - Gerardo Casucci
menu_open
Columnists Actual . Favourites . Archive
We use cookies to provide some features and experiences in QOSHE

More information  .  Close
Aa Aa Aa
- A +

Quelle due parole comuni alle lingue (e ai cuori) di tutti

29 0
20.11.2023

Uno studio coordinato dall'eminente psicologo inglese Kenny Coventry, il cui principale interesse di ricerca è la relazione tra linguaggio e percezione, pubblicato sulla prestigiosissima rivista scientifica Nature Human Behaviour, ha evidenziato come tutte le lingue - ne sono state testate 29, sulle più di 7mila oggi esistenti nel mondo, dall'inglese all'italiano, dal norvegese al telugu, dal vietnamita allo tzeltal - condividono sul piano strettamente semantico, al di là dell'uso grammaticale che di loro se ne fa, due piccole e comunissime parole, "questo" e "quello", pronomi o aggettivi dimostrativi, a seconda della funzione sintattica ricercata, entrambe rifacentesi comunque "alle coordinate spaziali dell'enunciazione". Eggià lo spazio, quello sancito dalla vicinanza e dalla lontananza da chi parla, non sempre e non solo però puramente fisico. I risultati dello studio hanno rivelato che, nonostante le differenze di ortografia e pronuncia tra le varie lingue, il significato concettuale delle parole utilizzate per "questo" e "quello" resta lo stesso. In ogni lingua, esiste una parola per........

© Roma


Get it on Google Play