Correva l'anno 1977. Mi ero appena iscritto al primo anno di università in Medicina, giusto qualche mese prima di compiere i miei fatidici 19 anni, quelli di un maggiorenne fatto, ormai "maturo", e pronto a entrare nel mondo degli adulti con piena consapevolezza e legittimità, culturale e politica. O almeno questo supponevo di meritare. Era - come dicevo - il 1977, una stagione turbolenta e confusa, tra crisi passata in giudicato del sistema socioeconomico, che pure tanto slancio aveva avuto negli anni '60, e mutazione fenomenologica del disagio giovanile (e non solo) con le sue innumerevoli declinazioni, comprese quelle delle "nuove rivoluzioni" studentesche (a qualche moto ci partecipai anch'io), più intente però a registrare la loro estinzione che il loro rilancio. A dare nuova linfa ai movimenti dei barricaderi in crisi ci pensavano in quei giorni le femministe italiane, più di tutte alla ricerca di una legittimazione universalistica e duratura. Erano appena trascorsi i convegni nazionali di Pinarella di Cervia del 1974 e del 1975, c'era l'analisi dell’inconscio dei gruppi di medicina e salute delle donne, erano appena sbocciati i consultori autogestiti e la rivista "Sottosopra" sfornava pensieri e parole finalmente liberate dal vincolo subordinato di genere. Solo un anno dopo a Milano al "Convegno internazionale sul movimento di liberazione della donna" Marina Zancan parlava con rammarico, ma anche inusitata determinazione, di "un’operazione massiccia di esproprio e ridefinizione del patrimonio prodotto dalle donne da parte degli ambiti istituzionali, della politica e della cultura", in atto, a suo dire (ancora) "dal 1977", e concludeva con un inorgoglito e libertario "abbiamo tutelato spazi di autonomia e di autogestione; abbiamo attivato momenti di autoriflessione su questa nostra presenza…e ci siamo proposte di ridefinire dei diversi paradigmi scientifici". Niente a che vedere con il Convegno di Modena di quasi dieci anni dopo in cui esordiva il "ceto intellettuale femminile". Mentre la donna cresceva esponenzialmente sulle macerie di una lotta, tutta maschile e ormai sterile, agli stereotipi della società del benessere, io vivevo nella mia amata Napoli tra poesie e concerti, serate oziose e nuovi mondi dopo quelli della scuola e degli amici che credevo allora indileguabili, e che invece avrei, da lì a poco, tutti o quasi, perduti lungo il mio nuovo percorso di studi. Avevo appena messo in piedi la mia prima relazione amorosa stabile e quotidiana, quella fatta "in casa", tra rapporti consumati in auto troppo piccole per la mia statura e lunghi confronti intellettuali, ancora imberbi, ma sempre meno velleitari. Come dicevo, infatti, ero diventato "grande". Benché non fossi il principe azzurro, la mia fidanzata di allora, che era poco più grande di me (particolare non trascurabile per quelli che eravamo allora) e portava con sé cinque cognomi e una lunga lista di antenati ed epopee famigliari, manifestava una dedizione nei miei confronti affatto puberale a cui non ero francamente abituato, ma anche un rispetto, una capacità di ascolto, una parità sostanziale e sussurrata (anche nei giorni di rabbia) e una indipendenza (anche sessuale) più benefica di qualunque insegnamento o lettura. Sorrideva che era un piacere e condiscendeva il giusto. Quello che mi ha insegnato dura ancora. Non ha mai avuto bisogno di spiegare le sue ragioni perché presto erano diventate anche le mie, come in un processo di osmosi o contaminazione che era progressivo e naturale e che alla fine - sono certo - ha lasciato entrambi migliori. Che io ricordi non abbiamo mai parlato di femminicidi né violenze sulle donne, e non perché tra noi ci fossero argomenti tabù, ma semplicemente perchè allora non esistevano. Lo dicono le statistiche di quell'epoca felice, a quanto pare non solo per me. I nostri genitori si portavano rispetto e noi facevamo altrettanto con le nostre donne. In definitiva era facile. Non ricordo neanche che qualcuno abbia dovuto spiegarcelo o istruirci in merito. Ci ammaestravamo - diciamo così - vedendo amare e amandoci (quasi) allo stesso modo. Tra altre mille morbosità, ma solo letterarie, leggevo la messinese Jolanda Insana - "l’empito per entrambi è rimesso in discussione / e la prima volta è sempre l’ultima / ma se esce pari vinco / e se esce dispari perdi" - e immaginavo saremmo andati così di pari passo, placidi e ossequiosi, fino ai più remoti lidi dell'orizzonte, che mi sembrava nitidamente di scorgere, delle nostre vite. E proprio in quei fortunati giorni, non so se insieme oppure no, ascoltavamo su giradischi di fortuna il quinto album musicale del già 31enne napoletano Eduardo Bennato, Burattino senza fili, quasi un concept album, un unico e fragoroso inno alla libertà di pensiero e costumi, ma coniugato a un bisogno colto e rigoroso di giustizia sociale. Dentro quel 33 giri c'era una canzone "La fata", che recitava così: "Farà per te qualunque cosa / E tu sorella e madre e sposa / E tu regina o fata tu / Non puoi pretendere di più": E aggiungeva: "E forse è per vendetta / E forse è per paura / O solo per pazzia / Ma da sempre / Tu sei quella che paga di più / Se vuoi volare ti tirano giù / E se comincia la caccia alle streghe / La strega sei tu". Per concludere: "E insegui sogni da bambina / E chiedi amore e sei sincera / Non fai magie, né trucchi, ma / Nessuno ormai ci crederà / C'è chi ti urla che sei bella / Che sei una fata, sei una stella / Poi ti fa schiava, però no / Chiamarlo amore non si può". Nessuno crederebbe che era (solo) il 1977, che Diana Russel, Rashida Manjoo e Marcela Lagarde sarebbero venute solo molto dopo a spiegarci che le bestie assassine delle donne si nascondevano tra le mura domestiche - e non più solo - e che c'erano segnali prima di quelle morti arrecate in nome dell'amore che contavano almeno quanto gli omicidi stessi. Le orecchie (maschili) di chi avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi, pure a distanza di quasi 50 anni, restano ancora troppo spesso chiuse tanto alle invocazioni di aiuto quanto alle richieste di giustizia. Basta rileggere l'ultimo post di Elena Cecchettin, la sorella della povera Giulia, carico di sdegno e di rabbia. Perfino l'accorata e storica requisitoria di due anni dopo quel 1977 dell'avvocato sardo Tina Lagostena Bassi a un processo per stupro, nella sua cruda attualità, sembra passata invano. Come del resto la canzone di Edoardo Bennato, che pure allora sembrò sollevare il lenzuolo di perbenismo e ipocrisie sui soprusi, le vergogne e le infelicità delle donne che, come dimostrano i tanti femminicidi odierni e le eccezioni alle drastiche soluzioni da adottare in loro nome, alla fin fine, non sono mai veramente mutate. "La cura" - quella di Franco Battiato - non sia precetto ma libertà di essere veramente uguali di fronte a Dio e agli uomini, tanto nel vincolo quanto nella sua dispersione.

QOSHE - “La fata” di Bennato e quel ’77 d’amore e d’altre amenità - Gerardo Casucci
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“La fata” di Bennato e quel ’77 d’amore e d’altre amenità

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04.12.2023

Correva l'anno 1977. Mi ero appena iscritto al primo anno di università in Medicina, giusto qualche mese prima di compiere i miei fatidici 19 anni, quelli di un maggiorenne fatto, ormai "maturo", e pronto a entrare nel mondo degli adulti con piena consapevolezza e legittimità, culturale e politica. O almeno questo supponevo di meritare. Era - come dicevo - il 1977, una stagione turbolenta e confusa, tra crisi passata in giudicato del sistema socioeconomico, che pure tanto slancio aveva avuto negli anni '60, e mutazione fenomenologica del disagio giovanile (e non solo) con le sue innumerevoli declinazioni, comprese quelle delle "nuove rivoluzioni" studentesche (a qualche moto ci partecipai anch'io), più intente però a registrare la loro estinzione che il loro rilancio. A dare nuova linfa ai movimenti dei barricaderi in crisi ci pensavano in quei giorni le femministe italiane, più di tutte alla ricerca di una legittimazione universalistica e duratura. Erano appena trascorsi i convegni nazionali di Pinarella di Cervia del 1974 e del 1975, c'era l'analisi dell’inconscio dei gruppi di medicina e salute delle donne, erano appena sbocciati i consultori autogestiti e la rivista "Sottosopra" sfornava pensieri e parole finalmente liberate dal vincolo subordinato di genere. Solo un anno dopo a Milano al "Convegno internazionale sul movimento di liberazione della donna" Marina Zancan parlava con rammarico, ma anche inusitata determinazione, di "un’operazione massiccia di esproprio e ridefinizione del patrimonio prodotto dalle donne da parte degli ambiti istituzionali, della politica e della cultura", in atto, a suo dire (ancora) "dal 1977", e concludeva con un inorgoglito e libertario "abbiamo tutelato........

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