Joe Biden e Volodymyr Zelensky: è stato l’incontro fallimentare tra due mancati statisti, trovatisi per sfortuna dell’Occidente a fare i capi di Stato. L’uno, della maggiore potenza economico-militare del pianeta mai come ora divisa e nel profondo indecisa; l’altro, del più corrotto e devastato Paese d’Europa, col più velleitario dei governi. Basti dare uno sguardo ai commenti dei mass media degli Stati Uniti, alle nuove analisi della cosiddetta ‘grande stampa’ finora alquanto omertosa del Vecchio Continente, ai sondaggi impietosi relativi al credito di fiducia agli sgoccioli per l’americano e in calo costante per l’ucraino, agli squarci di verità che improvvisamente, e finalmente, rivelano l’altra faccia del regime di Kiev. Zelensky è passato, in appena un anno, dagli abbracci e dagli applausi del Congresso - e soprattutto dai 50 miliardi di dollari in aiuti militari – alla dichiarazione di Mike Johnson speaker della Camera dei rappresentanti (“Per gli Usa adesso è interesse prevalente la spesa diretta a bloccare l’invasione di immigrati dal confine col Messico”) e alla promessa di Biden di una elemosina di una manciata di milioni di dollari. E’ dai mesi a cavallo del 2014 che Washington e Kiev sbagliano i calcoli: un allargamento inutile della Nato al costo di un catastrofico regalo della Russia alla Cina e all’Iran. Questo, mentre anche l’Austria aggiunge il proprio veto all’accoglimento della ‘sua’ Ucraina nell’UE, complicando un Consiglio europeo che affronta l’ipotesi di un ulteriore e assai problematico allargamento, oltre che a Kiev, alla Moldavia (con la Transnistria russofona) e a sei Stati balcanici, senza contare la Turchia di Recep Tayyp Erdogan in perenne sala d’attesa. Resta la speranza, per l’Occidente, che non si spenga nella memoria nazionale russa la diffidenza di Mosca – la Terza Roma – verso i nemici storici e il timore che suscita l’espansionismo del Celeste Impero e del fondamentalismo islamico, alimentati nelle terre e sui mari dal crollo dell’ex impero sovietico. Resta la speranza, per l’Occidente, che nuovi leader – a Washington come a Kiev - recuperino il dialogo con Mosca. Ma anche all’interno delle rispettive società: la contrapposizione che prima era strategica e ideologica tra Est ed Ovest e di riflesso politica all’interno dei Paesi dei due schieramenti, ora appare - segnatamente nell’Occidente liberale – politica e sociale all’interno degli Stati e rivolta strategicamente verso gli equilibri internazionali. Un capovolgimento. Il deficit di leadership negli Usa e nell’Ue è disarmante. Ci avviamo a un anno elettorale planetario che – a elencare gli appuntamenti più importanti - inizierà a Taiwan, proseguirà in Russia a metà marzo, poi con le europee di giugno, infine negli Stati Uniti a novembre. Ma con un supplemento di rilievo nel 2025. Infatti, meno di un anno dopo in Germania si riapriranno le urne. Taiwan, l’isola-Stato che Xi ha promesso di riportare entro il 2050 sotto il dominio di Pechino, è il nuovo Muro che divide nell’Indo-Pacifico le due superpotenze del ventunesimo secolo. Riunificazione in “una sola Cina” che gli Stati Uniti accetterebbero ma a condizione che avvenga pacificamente e col consenso della popolazione taiwanese. Fu questo l’impegno della clamorosa intesa, in funzione antisovietica, tra la Cina di Mao e l’America di Nixon, mediata magistralmente da Henry Kinssinger. Un impegno che Pechino può improvvisamente tradire. E’ la riaffermazione di questo impegno il significato vero della risposta positiva del capo della Casa Bianca alla domanda se considerasse o meno Xi un “dittatore”. Lo è perché la Cina è retta da un sistema comunista. Governare un impero assai vasto non è facile senza un forte potere centrale, anche Roma dismise le vesti repubblicane ma la Città Proibita ha oggi il potere della repressione feroce con falangi obbedienti e unitarie, la fortuna di un impero con una lingua comune, una etnìa Han totalizzante e disciplinata dal confucianesimo, un’ideologia nazionalcomunista con un minimo di elasticità per adattarsi ai diversi momenti politici e istituzionali e macroeconomici, una storia millenaria e il ricordo delle lacerazioni interne e dei ‘protettorati’ stranieri a fungere da mònito contro il pericolo di disgregazione. Taiwan, l’ex Formosa, non ‘nacque’ cinese ma lo è divenuta: per Pechino basta una volta perché lo sia per sempre. Solo il futuro meno prossimo ci rivelerà se i risultati del summit di novembre a San Francisco tra Joe Biden e Xi Jinping siano stati davvero rilevanti, concreti e promettenti. Ma una prima indicazione l’offriranno appunto le prossime elezioni presidenziali a Taiwan se – a prender per buone le indagini demoscopiche – il 13 gennaio dovesse prevalere l’indipendentista Lai Ching Te, leader del Partito democratico progressista, sul candidato del Kuomintang, il partito dei cino-nazionalisti che, guidati da Chiang Kai-shek e sconfitti da Mao, si rifugiarono sull’isola con l’obiettivo di una riconquista improbabile ma di una riunificazione futura certa nel Celeste Impero. Le presidenziali di metà marzo in Russia non prefigurano sorprese per il consenso che raccoglie Vladimir Putin nelle stesse metropoli dove il dissenso ha un minimo di spessore. Invece, le consultazioni europee di giugno appaiono potenzialmente ricche di novità. I partiti di destra viaggiano col vento in poppa. A ogni afflusso di immigrati irregolari corrisponde un bottino di voti mentre il collante costituito dal comune sostegno al regime di Kiev evapora, lasciando il posto a una valutazione più realistica ed obiettiva del conflitto russo-ucraino. Un vento, però, che non spegne le divisioni tra le destre e che preoccupa le forze moderate spingendole a proseguire nell’alleanza basata su popolari e socialdemocratici. Conta anche un altro fattore. L’asse Parigi- Berlino non è solido come in passato, tutt’altro, ma destinato a rinsaldarsi perché è fallito il tentativo di Biden (spalleggiato dall’Inghilterra di Boris Johnson e col concorso di un servente segretario della Nato come Jens Stoltenberg) di indebolirlo spostando il baricentro dell’Alleanza verso l’Europa centro-orientale e settentrionale: sfruttando la scia delle adesioni dei Paesi scandinavi finora neutrali e costringendo il cancelliere tedesco Olaf Scholz a ‘ingoiare’ il bombardamento del gasdotto Nord Stream e a stornare armi e soldi su Kiev . A novembre le presidenziali negli Stati Uniti. Si votasse domani, Biden uscirebbe battuto sonoramente nella partita di ritorno con Donald Trump. Ma si torna alle urne tra un anno. Trump potrebbe venire escluso dalla competizione dai magistrati ma pure Biden corre il rischio, trascinato dal figlio Hunter che ha guai con la giustizia. In campo repubblicano non mancano figure di spicco, da Vivek Ramaswany a Ron De Santis e alla esponente neocon Nikki Haley. I Dem hanno fatto terra bruciata dinanzi a candidati alternativi a Biden. Ma il giornalista Tucker Carlson continua a mitragliarli con rivelazioni imbarazzanti e Robert Kennedy jr ha tolto il disturbo ma resta in gara come indipendente. In Germania il governo tra Socialdemocratici, Verdi e liberali cammina sul ciglio della crisi mentre la destra dell’AfD (Alternativa per la Germania) ha superato nelle intenzioni di voto gli stessi Socialdemocratici e ruba consensi ai liberali e agli stessi popolari(Cdu-Csu), una situazione che sospinge i cristiano-sociali bavaresi della Csu a elaborare un programma politico che impedisca fughe a destra. A dispetto di quanto si creda, nell’AfD c’è dibattito democratico interno e un buon livello culturale: “Il partito vanta un’alta percentuale di laureati e professionisti ”, secondo il docente universitario Federico Scarano, germanista e storico. Il primo presidente dell’AfD – sottolineano gli aderenti al partito - è stato l’importante professore di economia Bernd Lucke, per trent’anni un esponente della Cdu; citano Frauke Petry, nota chimica; ricordano che il primo leader del partito era Alexander Gauland, ora 82enne e presidente onorario, l’unico ad aver ricoperto ruoli politici di una certa importanza nell’Assia, membro della Cdu per un quarantennio. Giovanissimo riuscì a fuggire dalla Ddr – la Germania dell’est – divenendo un giurista, economista e storico, autore di innumerevoli libri e saggi. Un altro nome, quello di Alice Weiland, economista di livello internazionale, già molto apprezzata dalla Cdu e attuale principale leader del partito, lesbica che convive con una regista asiatica. La varia successione nella leadership, risultato di dibattiti e scontri e addii polemici, testimonia la vivacità del dibattito nei congressi del partito e la dinamica democratica al suo interno. Restano, tuttavia, le accuse apparse sui media di frange estremiste infiltrate o ai margini dell’AfD . La spaccatura nella maggioranza (formata da Socialdemocratici, Verdi e liberali) ha impedito l’elaborazione del bilancio statale e costretto il governo del cancelliere Olaf Scholz all’esercizio provvisorio. L’Afd ha chiesto nuove elezioni anticipate.Sarebbe oggi un suicidio, per i Socialdemocratici, superati nelle intenzioni di voto dall’AfD, al secondo posto dietro i popolari.

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Usa e Ue al bivio: 2024, un anno tra elezioni e guerra

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14.12.2023

Joe Biden e Volodymyr Zelensky: è stato l’incontro fallimentare tra due mancati statisti, trovatisi per sfortuna dell’Occidente a fare i capi di Stato. L’uno, della maggiore potenza economico-militare del pianeta mai come ora divisa e nel profondo indecisa; l’altro, del più corrotto e devastato Paese d’Europa, col più velleitario dei governi. Basti dare uno sguardo ai commenti dei mass media degli Stati Uniti, alle nuove analisi della cosiddetta ‘grande stampa’ finora alquanto omertosa del Vecchio Continente, ai sondaggi impietosi relativi al credito di fiducia agli sgoccioli per l’americano e in calo costante per l’ucraino, agli squarci di verità che improvvisamente, e finalmente, rivelano l’altra faccia del regime di Kiev. Zelensky è passato, in appena un anno, dagli abbracci e dagli applausi del Congresso - e soprattutto dai 50 miliardi di dollari in aiuti militari – alla dichiarazione di Mike Johnson speaker della Camera dei rappresentanti (“Per gli Usa adesso è interesse prevalente la spesa diretta a bloccare l’invasione di immigrati dal confine col Messico”) e alla promessa di Biden di una elemosina di una manciata di milioni di dollari. E’ dai mesi a cavallo del 2014 che Washington e Kiev sbagliano i calcoli: un allargamento inutile della Nato al costo di un catastrofico regalo della Russia alla Cina e all’Iran. Questo, mentre anche l’Austria aggiunge il proprio veto all’accoglimento della ‘sua’ Ucraina nell’UE, complicando un Consiglio europeo che affronta l’ipotesi di un ulteriore e assai problematico allargamento, oltre che a Kiev, alla Moldavia (con la Transnistria russofona) e a sei Stati balcanici, senza contare la Turchia di Recep Tayyp Erdogan in perenne sala d’attesa. Resta la speranza, per l’Occidente, che non si spenga nella memoria nazionale russa la diffidenza di Mosca – la Terza Roma – verso i nemici storici e il timore che suscita l’espansionismo del Celeste Impero e del fondamentalismo islamico, alimentati nelle terre e sui mari dal crollo dell’ex impero sovietico. Resta la speranza, per l’Occidente, che nuovi leader – a Washington come a Kiev - recuperino il dialogo con Mosca. Ma anche all’interno delle rispettive società: la contrapposizione che prima era strategica e ideologica tra Est ed Ovest e di........

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