L’Occidente celebra il secondo anniversario del conflitto in Ucraina e del confronto armato indiretto con la Russia con nuove sanzioni - il tredicesimo “pacchetto” - e un programma di riarmo che interesserà in massima parte i Paesi dell’Unione europea. Il governo di Washington punta anche a utilizzare i fondi sovrani della Banca centrale russa depositati all’estero (circa 400 miliardi di dollari) in sostituzione o a contorno di quelli previsti a favore del regime ucraino mentre accelera lo sviluppo della ricerca pubblica e privata volta a sfruttare l’Intelligenza artificiale nelle forze armate. A mettere fretta contribuiscono la crescente stanchezza degli americani per la guerra in Ucraina e i costi crescenti – e infruttuosi dell’aiuto in armi e in assistenza, nonché il timore di determinati apparati industriali di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca che comporti una riduzione del supporto al complesso militar-industriale. Un timore vieppiù diffuso, che si rileva pure dalle donazioni finora giunte ai candidati alle presidenziali di novembre: quelle per Trump ammontano appena ad un quarto delle offerte dirette a Joe Biden. La Russia, da parte sua, celebra l’anniversario con la conquista di Avdiivka, dal valore segnatamente simbolico, e la cattura di un altro migliaio di soldati di Kiev, cosa che spingerà molti ucraini ad aggiungersi ai circa 700mila finora fuggiti all’estero per evitare l’arruolamento obbligatorio. La morte di Aleksey Navalny non ha scosso il regime: aveva molto coraggio ma un sèguito inversamente proporzionale e concentrato nelle sole metropoli. Gli italiani, da parte loro, si vedranno ancora una volta non rappresentati dal governo: tutte le indagini demoscopiche rivelano che i due terzi sono contrari all’invio di armi a Kiev. E non sono certo un’eccezione nell’Europa dell’ovest, la porzione del Vecchio Continente che ha evitato l’oppressione sovietica. Roma, infatti, fa la parte della prima della classe nel dedicare la prima riunione del G7 a guida italiana al sostegno del regime di Kiev, forse nella stessa capitale ucraina o rassegnandosi all’ormai consueta presenza fisica o da remoto di Volodymyr Zelensky. Pare conti principalmente il mostrarsi più moderati, più europeisti e più filo-americani di tutti, Mario Draghi compreso, insomma i meno ‘fascisti’ d’Italia, per spiazzare la sinistra e aggregarsi ai potenti di Bruxelles e Washington. Potenti pro-tempore. Si spenderà – vale la pena ripeterlo una parola col leader britannico sulla sorte di Julian Assange? Si porranno al presidente ucraino domande su Gonzalo Lira, cittadino americano contestatore arrestato e morto di stenti in carcere, sul regime dittatoriale instaurato nel suo Paese, sugli avversari e sui prigionieri in carcere o forse passati per le armi (non lo fanno solo i nemici)? Certo che no. E alle ortiche il ruolo di mediazione che Roma ha per mezzo secolo magistralmente svolto, negli interessi dell’Italia pur nei limiti di quelli superiori dell’Europa e nella coerenza della fedeltà atlantica. Alle parole gentili, fossero pure ipocrite, di Putin perché rispondere con tono arrogante, inutilmente offensivo? Toni da lasciare piuttosto alla sinistra piazzaiola per assumerne di meno declamatori e più misurati. Il riarmo dell’Europa, ad esempio, è una necessità finora in parte disattesa (per… ‘sicumera Nato’) e costerà parecchio. Non è detto che Trump resti candidato, tantomeno vincitore della presidenza. Eppure a dare la sveglia è bastata una sua considerazione a sfondo elettorale ma non solo che i suoi compatrioti spendano nella Nato più del dovuto, cioè si addossino una parte della quota europea. Certo, non basterebbe ricordargli le spese per disastrose avventure in Afghanistan o in Iraq perché, con tutti i suoi limiti, lui presidente avrebbe forse gestito meglio quelle crisi: lo testimoniano i suoi quattro anni senza guerre, i rapporti corretti con Mosca, il freno all’espansionismo cinese, soprattutto gli Accordi di Abramo (una svolta di pace cui l’Iran ha risposto attraverso Hamas). Resta che l’Europa delle patrie necessita di una Difesa integrata, comune. La insegue invano da metà degli anni Cinquanta. Charles De Gaulle coraggiosamente ne pose le fondamenta con una autonoma forza nucleare francese (Londra acquista i missili negli Stati Uniti)… Da allora, che spreco di tempo e di risorse! Pochi dati ad esempio. A fronte di una spesa statunitense per la Difesa, che sfiora i mille miliardi di dollari, i 27 dell’Unione europea ne pagano all’incirca una buona metà. Una grossa cifra, ancor più significativa se paragonata a quelle di Cina (sui 300 miliardi di dollari), della Russia (quasi 120 ufficialmente, raddoppiati rispetto al 2023) e dell’India (tra 80 e 90). Ma come sono stati finora spesi in Europa? Bene in molti settori, a sentire gli esperti, e male in altri a causa non solo delle diverse realtà ed esigenze nazionali ma anche di egocentrismi, concorrenza tra industrie e produzioni simili, convenienze economiche del momento o programmate negli acquisti, risposte ad esigenze lavorative locali, sospetti e via elencando. Risultato: spese eccessive per costruire e poi ammodernare – tanto per fare qualche esempio – 20 diversi tipi di aerei caccia a fronte dei soli 6 statunitensi, o 29 modelli di fregate a fronte dei soli 4 Usa, o 17 tipi di carri armati a fronte di 1 (uno) americano… Ma torniamo all’anniversario. Due anni fa, con l’attacco della Russia all’Ucraina, si spezzava il filo già sfilacciato tra l’Occidente euro-atlantico e l’Occidente euro-asiatico. Un trentennio di pace che parve subito breve – aveva fatto seguito a 45 anni di divisione dell’Europa e del mondo, di confronti e di conflitti per interposti Stati, fazioni , clan, etnìe e partiti politici. L’Unione Sovietica si era infatti dissolta nel 1991, dopo una “marcia di settant’anni verso il nulla” che aveva progressivamente sciolto il collante ‘religioso’ dell’illusione comunista. La Russia di Mikhail Gorbaciov e di Boris Eltsin aveva poi affrontato un terribile decennio di transizione verso il capitalismo e la democrazia: senza alcun “piano Marshall” a sorreggerla ma col contagio separatista che minava un impero già auto-amputatosi delle appendici baltiche e dell’intero Centrasia, mentre la febbre islamista dal Medio Oriente puntava a dilagare tra le sue popolazioni musulmane che dismettevano i libri di storia ‘europea’ e l’ateismo marxista imposti da Mosca. Con Vladimir Putin, succeduto a Eltsin all’alba del Duemila, la Federazione russa riusciva a raggiungere quattro obiettivi. 1) Raggiungere la stabilità interna e iniziare l’opera di ‘normalizzazione’ ed irreggimentazione della nuova aristocrazia russa, anzi plutocrazia, formatasi durante gli anni della privatizzazione dell’apparato economico statalizzato. 2) Fermare la diserzione della Cecenia iniziata già all’indomani del fallito golpe contro Gorbaciov, anche con un bombardamento di Grozny simile a quello di Gaza (perché pure lì i terroristi si facevano scudo della popolazione, ma con la differenza che il Cremlino aveva cercato e trovato un alleato, il clan dei Kadyrov Akhmat e il figlio Ramzan cui affidare la repubblica autonoma una volta domata), così impedendo che la febbre indipendentista s’allargasse al cuore della Federazione, il Tatarstan, come all’intero Caucaso russo. 3) Rispondere vittoriosamente al sangue che spargeva il terrorismo islamico che nutrito negli anni Ottanta da americani e alleati arabi in Afghanistan contro i dirigenti comunisti sostenuti dall’Urss spingeva i suoi artigli verso la nuova Federazione, colpendo persino nella sua capitale. 4) Instaurare un rapporto di collaborazione con l’Occidente allo scopo di una possibile lenta integrazione nella “comune famiglia europea”: se il bombardamento della Serbia e le mire d’allargamento della Nato tradivano gli impegni presi dall’Occidente, il vertice di Pratica di Mare prometteva di riallinearli… E invece, le cose sono andate diversamente. La Nato che rifiuta la Russia e s’allarga fin quasi al ‘cortile’ di Mosca. Due anni di guerra in Ucraina, che hanno fatto seguito al ‘golpe’ a cavallo del 2014, all’intervento delle milizie di Mosca per riprendersi la strategica Crimea e a protezione dei russofoni del Donbass vittime di sette anni di repressione sanguinosa. Due anni di guerra e oltre mezzo milione di vittime distribuite sui due fronti. L’Ucraina ridotta a brandelli; oltre un terzo degli abitanti rifugiati all’estero, verso l’Europa ma in misura minore anche verso la Russia. Gli Stati Uniti che, dopo aver sbarrato all’Ue la nuova Via della Seta, hanno spezzato il temuto legame tra Mosca e Berlino, cancellando il capolavoro del cancelliere Gerhard Schroeder ereditato e sfruttato poi da Angela Merkel che vedeva la Russia fornitrice di energia per l’industria tedesca rivolta al mercato cinese, col risultato però di trovarsi Mosca e Pechino strette in un abbraccio di comune interesse. E l’Europa obbediente che ha subìto sia un ampliamento dell’Alleanza Atlantica di cui non sentiva il bisogno, sia costi inaspettati per sostituzione di fonti energetiche, armi e accoglienza. Tutto questo, per il disegno anti-russo dei ‘neocon’ di Washington che hanno spinto Mosca al recupero del campo internazionale ex sovietico ed anti-occidentale dal quale voleva allontanarsi… Ecco perché il conflitto in Ucraina dimostra che hanno perso tutti.

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Due anni di guerra e hanno perso tutti

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23.02.2024

L’Occidente celebra il secondo anniversario del conflitto in Ucraina e del confronto armato indiretto con la Russia con nuove sanzioni - il tredicesimo “pacchetto” - e un programma di riarmo che interesserà in massima parte i Paesi dell’Unione europea. Il governo di Washington punta anche a utilizzare i fondi sovrani della Banca centrale russa depositati all’estero (circa 400 miliardi di dollari) in sostituzione o a contorno di quelli previsti a favore del regime ucraino mentre accelera lo sviluppo della ricerca pubblica e privata volta a sfruttare l’Intelligenza artificiale nelle forze armate. A mettere fretta contribuiscono la crescente stanchezza degli americani per la guerra in Ucraina e i costi crescenti – e infruttuosi dell’aiuto in armi e in assistenza, nonché il timore di determinati apparati industriali di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca che comporti una riduzione del supporto al complesso militar-industriale. Un timore vieppiù diffuso, che si rileva pure dalle donazioni finora giunte ai candidati alle presidenziali di novembre: quelle per Trump ammontano appena ad un quarto delle offerte dirette a Joe Biden. La Russia, da parte sua, celebra l’anniversario con la conquista di Avdiivka, dal valore segnatamente simbolico, e la cattura di un altro migliaio di soldati di Kiev, cosa che spingerà molti ucraini ad aggiungersi ai circa 700mila finora fuggiti all’estero per evitare l’arruolamento obbligatorio. La morte di Aleksey Navalny non ha scosso il regime: aveva molto coraggio ma un sèguito inversamente proporzionale e concentrato nelle sole metropoli. Gli italiani, da parte loro, si vedranno ancora una volta non rappresentati dal governo: tutte le indagini demoscopiche rivelano che i due terzi sono contrari all’invio di armi a Kiev. E non sono certo un’eccezione nell’Europa dell’ovest, la porzione del Vecchio Continente che ha evitato l’oppressione sovietica. Roma, infatti, fa la parte della prima della classe nel dedicare la prima riunione del G7 a guida italiana al sostegno del regime di Kiev, forse nella stessa capitale ucraina o rassegnandosi all’ormai consueta presenza fisica o da remoto di Volodymyr Zelensky. Pare conti principalmente il mostrarsi più moderati, più europeisti e più filo-americani di tutti, Mario Draghi compreso, insomma i meno ‘fascisti’ d’Italia, per spiazzare la........

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