La meraviglia del cantante Tananai che sul palco del 1° maggio dedica al rapper iraniano condannato a morte dagli ayatollah la stessa canzone che aveva scritto per celebrare la resistenza ucraina. Monologhi da esportare
Il ritornello che amiamo fischiettare di più in questi giorni è molto simile a un famoso tormentone politico solo leggermente rivisitato (“Io sono Georgia, sono europea, sono la madre di tutte le battaglie anti putiniane”). Ma il Primo maggio, per qualche istante, il nostro tormentone del cuore è stato prontamente sostituito da un altro tormentone di cui ci eravamo già innamorati e il cui autore, mercoledì sera, ha riportato al centro del nostro cuore. Siamo a Roma, al Circo Massimo, sul palco del concerto del Primo maggio e succede che all’improvviso il monologo più coraggioso, più inaspettato e più sorprendente è quello che offre al pubblico non un sosia stanco di Antonio Scurati detto Toni, il wannabe Eugenio Scalfari detto Stefano Massini, ma un formidabile cantante che meriterebbe di essere invitato in tutte le università del globo terracqueo, non solo in quelle italiane. Lui si chiama Alberto Cotta Ramusino, tutti lo conoscono come Tananai, e mercoledì sera, poco prima di intonare una dei suoi testi più belli, “Tango”, testo che ha portato al Festival di Sanremo nel 2023, ha detto che voleva dedicare la canzone a una persona speciale: il rapper iraniano Toomaj Salehi.
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Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.