Quell’anno lì, quello del terremoto, a scuotere le cose ci si aspettava fossero i risultati delle elezioni. Altro tempo davvero, lontanissimo: esistevano ancora le Province. Adesso, possiamo dirlo con serena consapevolezza e allegra rassegnazione, che i risultati elettorali in Italia servano a scuotere le cose è una simpatica favoletta però di sicuro le settimane che precedono il voto sono pittoresche e caciarone. E in quei giorni a L’Aquila, capoluogo d’Abruzzo, i candidati andavano presentando a destra e a manca – appunto – ricette caserecce (da queste parti i rimedi della nonna vanno ancora per la maggiore) capaci di risvegliare la città dallo stato di letargia in cui era precipitata da qualche decina di decenni. A risolvere tutto l’irrisolvibile ci ha pensato, alle 3:32 del primo lunedì di aprile, una scossa di una certa intensità (anche sui numeri delle Scale si sarebbe dibattuto, in seguito).

Potrei andare avanti per almeno altre seimila righe con questo tono, con questa ironia sciatta, zoppa. Potrei inserire qui tutta una serie di sciabolate per colpire in aria le cose che di questa città ogni tanto raggiungono una visibilità più ampia di quella locale: qualche mafioso che viene a passare qualche ergastolo al carcere di Preturo, il fumo di una promozione a città delle cultura italiana 2026 (italiana, non europea), un ex partecipante del Grande Fratello che posta un video direttamente da un centro commerciale, il racconto una volta l’anno – un racconto di fantascienza – sulla città rinata, sugli aquilani forti e gentili come tutti gli abruzzesi, la Perdonanza celestiniana e nessun etc. etc, finisce qui.

Una scossa di terremoto non è una punizione e neanche un merito. Arriva, butta giù quello che capita, non ha nulla di personale nella sua forza, nella sua dinamica, non ha una spinta di odio, non ha nulla. È natura, come un tornado, come un arcobaleno, come l’esplosione di un vulcano, come un’aurora boreale. Io quella notte c’ero, abitavo in quella città da nove anni. C’ero io e c’erano le mie figlie, avevano otto anni una e due l’altra. Sono uscita da casa mia con le crepe che si disegnavano lungo le pareti e sembravano corrermi dietro mentre io passavo correndo, rimbalzando, come nei film. Ho conosciuto il senso della fine: non lo sai che ce la farai a non restare sotto, mentre scappi, e il corpo reagisce in modo animale, sparisce la saliva, senti i capelli che si rizzano sulla testa e stringi i denti, pensi solo – e non lo so se è perché in quegli attimi scopri la fede – ‘Dio mio’. Non vedi nessun film riassuntivo della vita e neanche qualcuno che ti aspetta a braccia aperte. Fuori, poi, c’erano gli zombie. Gente scappata come me, gente nuda, gente con i pigiami scompagnati, gente senza dentiera, gente che si muoveva tastando l’aria perché senza occhiali, gente allucinata. Poi ore e giorni e settimane e mesi impastati: non sapere se la tua casa è crollata, non avere più i tuoi documenti, le carte di credito, le chiavi della macchina, fare la fila per una bottiglietta d’acqua, cercare gli assorbenti e intanto sanguinare, fare la fila per il pane, per un paio di scarpe. Cominciare a sentire le voci che raccontano i crolli, i morti, chiedersi perché non senti nulla, perché non reagisci, perché non ti disperi, perché non piangi. Devi imparare a raccontare qualcosa di te che dovresti avere dentro. Ma la verità vera è che da una distruzione nessuno esce vivo.

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Quell’anno lì, quello del terremoto, a scuotere le cose ci si aspettava fossero i risultati delle elezioni. Altro tempo davvero, lontanissimo: esistevano ancora le Province. Adesso, possiamo dirlo con serena consapevolezza e allegra rassegnazione, che i risultati elettorali in Italia servano a scuotere le cose è una simpatica favoletta però di sicuro le settimane che precedono il voto sono pittoresche e caciarone. E in quei giorni a L’Aquila, capoluogo d’Abruzzo, i candidati andavano presentando a destra e a manca – appunto – ricette caserecce (da queste parti i rimedi della nonna vanno ancora per la maggiore) capaci di risvegliare la città dallo stato di letargia in cui era precipitata da qualche decina di decenni. A risolvere tutto l’irrisolvibile ci ha pensato, alle 3:32 del primo lunedì di aprile, una scossa di una certa intensità (anche sui numeri delle Scale si sarebbe dibattuto, in seguito).

Potrei andare avanti per almeno altre seimila righe con questo tono, con questa ironia sciatta, zoppa. Potrei inserire qui tutta una serie di sciabolate per colpire in aria le cose che di questa città ogni tanto raggiungono una visibilità più ampia di quella locale: qualche mafioso che viene a passare qualche ergastolo al carcere di Preturo, il fumo di una promozione a città delle cultura italiana 2026 (italiana, non europea), un ex partecipante del Grande Fratello che posta un video direttamente da un centro commerciale, il racconto una volta l’anno – un racconto di fantascienza – sulla città rinata, sugli aquilani forti e gentili come tutti gli abruzzesi, la Perdonanza celestiniana e nessun etc. etc, finisce qui.

Una scossa di terremoto non è una punizione e neanche un merito. Arriva, butta giù quello che capita, non ha nulla di personale nella sua forza, nella sua dinamica, non ha una spinta di odio, non ha nulla. È natura, come un tornado, come un arcobaleno, come l’esplosione di un vulcano, come un’aurora boreale. Io quella notte c’ero, abitavo in quella città da nove anni. C’ero io e c’erano le mie figlie, avevano otto anni una e due l’altra. Sono uscita da casa mia con le crepe che si disegnavano lungo le pareti e sembravano corrermi dietro mentre io passavo correndo, rimbalzando, come nei film. Ho conosciuto il senso della fine: non lo sai che ce la farai a non restare sotto, mentre scappi, e il corpo reagisce in modo animale, sparisce la saliva, senti i capelli che si rizzano sulla testa e stringi i denti, pensi solo – e non lo so se è perché in quegli attimi scopri la fede – ‘Dio mio’. Non vedi nessun film riassuntivo della vita e neanche qualcuno che ti aspetta a braccia aperte. Fuori, poi, c’erano gli zombie. Gente scappata come me, gente nuda, gente con i pigiami scompagnati, gente senza dentiera, gente che si muoveva tastando l’aria perché senza occhiali, gente allucinata. Poi ore e giorni e settimane e mesi impastati: non sapere se la tua casa è crollata, non avere più i tuoi documenti, le carte di credito, le chiavi della macchina, fare la fila per una bottiglietta d’acqua, cercare gli assorbenti e intanto sanguinare, fare la fila per il pane, per un paio di scarpe. Cominciare a sentire le voci che raccontano i crolli, i morti, chiedersi perché non senti nulla, perché non reagisci, perché non ti disperi, perché non piangi. Devi imparare a raccontare qualcosa di te che dovresti avere dentro. Ma la verità vera è che da una distruzione nessuno esce vivo.

Sono morte 309 persone. Vecchi, adulti, giovani, bambini. Giorgia, la nipotina della mia amica Renza, la sorellina di Francesco che andava al nido con mia figlia Allegra, sarebbe dovuta nascere il giorno dopo con un cesareo. Sono morte persone, sono crollate case, scuole, la casa dello studente, chiese, il municipio, il palazzo del Governo. Sono morte le persone e si è disintegrata gran parte della città. Le prime vivono nel ricordo e nel rimpianto di chi è rimasto, la seconda è stata tirata per i capelli, sottoposta a mille tentativi goffi di rianimazione, strattonata e rattoppata, truccata come si usa in certe culture quando si espongono i cadaveri prima della tumulazione o della cremazione. Non basterebbero dieci enciclopedie per raccontare come si vive, come si cerca di restare presenti al mondo anche vivendo una quotidianità quasi extraterrestre. Come ci si sdoppia. Come non si è né una cosa né l’altra. Come ci si incattivisce.

L’Aquila non è rinata. Siamo sul pianeta Terra, nella stanza inferiore del Paradiso e da queste parti a risorgere è stato uno soltanto, pare. Duemila anni fa. L’Aquila non è rinata e la retorica è un’arma di distrazione di massa affilatissima: droga le volontà, accontenta i superstiti. L’Aquila com’era, io com’ero, le mie figlie com’erano, è tutto finito alle 3:32 di quel mattino ancora buio. C’è un’unica data di nascita che accomuna tutti e che segna il punto esatto per una nuova fondazione, che reclama una generazione di pionieri che tarda ad arrivare. Ogni giorno di ritardo è una scossa di non assestamento in più. È una falla nel modello di riferimento che deve guidare chi L’Aquila com’era non l’ha mai vista, chi è nato dopo, chi è cresciuto nelle New Town e lì ha mosso i primi passi, dato il primo bacio e che oggi si sente dire ‘puoi tornare a casa tua in centro, adesso’. Ci sono quindici anni da riempire di memoria che è già storia da archiviare con cura, da consegnare agli aquilani nuovi. L’Aquila dovrebbe già essere altro: altro da riconoscere, da accettare, accogliere.

Sono passati quindici anni, mia figlia si è laureata in lingua araba e vive a Milano, l’altra sta per compiere diciotto anni, vuole fare la pediatra, va a scuola a Roma. Un anno fa sono cominciati i lavori di ricostruzione di casa nostra. Sono potuta entrare prima che la buttassero giù e in cucina, sul tavolo accanto alla finestra con vista sul Gran Sasso, c’erano il ciuccio che la piccola aveva lasciato lì e l’album da colorare della grande.

Sono stati anni vissuti in prima linea e in trincea. Ci sono guerre che si combattono – prima di arrendersi – a mani nude, senza violenza, in the name of love. Guerre, come tutte, necessarie. Guerre, come tutte, inutili.

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Quindici anni fa s'è spenta L’Aquila

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06.04.2024

Quell’anno lì, quello del terremoto, a scuotere le cose ci si aspettava fossero i risultati delle elezioni. Altro tempo davvero, lontanissimo: esistevano ancora le Province. Adesso, possiamo dirlo con serena consapevolezza e allegra rassegnazione, che i risultati elettorali in Italia servano a scuotere le cose è una simpatica favoletta però di sicuro le settimane che precedono il voto sono pittoresche e caciarone. E in quei giorni a L’Aquila, capoluogo d’Abruzzo, i candidati andavano presentando a destra e a manca – appunto – ricette caserecce (da queste parti i rimedi della nonna vanno ancora per la maggiore) capaci di risvegliare la città dallo stato di letargia in cui era precipitata da qualche decina di decenni. A risolvere tutto l’irrisolvibile ci ha pensato, alle 3:32 del primo lunedì di aprile, una scossa di una certa intensità (anche sui numeri delle Scale si sarebbe dibattuto, in seguito).

Potrei andare avanti per almeno altre seimila righe con questo tono, con questa ironia sciatta, zoppa. Potrei inserire qui tutta una serie di sciabolate per colpire in aria le cose che di questa città ogni tanto raggiungono una visibilità più ampia di quella locale: qualche mafioso che viene a passare qualche ergastolo al carcere di Preturo, il fumo di una promozione a città delle cultura italiana 2026 (italiana, non europea), un ex partecipante del Grande Fratello che posta un video direttamente da un centro commerciale, il racconto una volta l’anno – un racconto di fantascienza – sulla città rinata, sugli aquilani forti e gentili come tutti gli abruzzesi, la Perdonanza celestiniana e nessun etc. etc, finisce qui.

Una scossa di terremoto non è una punizione e neanche un merito. Arriva, butta giù quello che capita, non ha nulla di personale nella sua forza, nella sua dinamica, non ha una spinta di odio, non ha nulla. È natura, come un tornado, come un arcobaleno, come l’esplosione di un vulcano, come un’aurora boreale. Io quella notte c’ero, abitavo in quella città da nove anni. C’ero io e c’erano le mie figlie, avevano otto anni una e due l’altra. Sono uscita da casa mia con le crepe che si disegnavano lungo le pareti e sembravano corrermi dietro mentre io passavo correndo, rimbalzando, come nei film. Ho conosciuto il senso della fine: non lo sai che ce la farai a non restare sotto, mentre scappi, e il corpo reagisce in modo animale, sparisce la saliva, senti i capelli che si rizzano sulla testa e........

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