Un periodico fatto dalle persone detenute del carcere di Bollate, carteBollate, e una classe di studenti del corso di Social design della Naba (Nuova accademia di belle arti). Insieme, per tutto l’anno accademico che si è appena concluso, hanno raccolto gli oggetti autocostruiti che i detenuti creano per sopravvivere ai divieti, spesso incomprensibili, del carcere. Vietate le grattugie, gli uncinetti, gli strumenti per cucinare. Ammesse le penne biro, che all'occorrenza diventano ferri da calza (che invece sono vietati). La vita detentiva è fatta di privazioni, della necessità di riempire i vuoti, di ritrovare la quotidianità dei propri gesti. In tutto 50 oggetti, raccolti con un lungo lavoro di scavo, che ha coinvolto la parte più emarginata della popolazione carceraria, che ora sono riuniti in una mostra, Oggetti d'evasione, curata dal designer Alessandro Guerriero. Inaugurazione a Milano, nell'ambito della settimana del design, il 15 aprile alle 15 alla Fabbrica del Vapore in via Procaccini 4. Resterà aperta al pubblico fino al 21 aprile, poi migrerà nello spazio del Consorzio Vialedeimille, dove sono previsti incontri e laboratori, non tanto per parlare di questi oggetti, quanto per ascoltare quello che essi ci raccontano del carcere.

Quando si arriva in galera ci si spoglia di tutto, a partire dalla propria identità. Se sei stato un padre, un marito, un rapinatore, un operaio, un commerciante o un ladro adesso sei solo un numero di matricola, quello che ti viene assegnato all’ingresso. In carcere si entra con i propri vestiti, qualche volta con un ricambio e con il necessario per l’igiene personale se si è avuto il tempo di preparare una valigia prima dell’arresto. Il resto è tutto da riconquistare. Per capire i bisogni da cui nascono questi oggetti dobbiamo iniziare dall’assenza, dal vuoto, dalla privazione che accoglie il detenuto al suo primo ingresso in cella, un luogo intimo e violato, chiuso ma costantemente spiato, che guarda sul niente e lascia sognare il mondo.

Immaginiamo di esplorarne una a caso, singola o condivisa, arredata con niente: una branda, un materasso sporco e scomodo, che ha assorbito sofferenze stratificate negli anni. Muri scrostati, tracce delle foto o dei ritagli iconici di chi ha abitato quella stanza prima di noi. Un luogo in cui manca tutto e in cui non sai dove collocare te stesso e le poche cose che hai portato con te. È anche un microcosmo che consente di entrare in contatto con le minuzie della vita quotidiana, per poi allargare lo sguardo e cercare di conoscere il carcere nella sua complessità.

Riempire quel vuoto, abitarlo, renderlo vivibile, è quindi la prima necessità da cui parte la produzione di oggetti d’uso, decorativi, o affettivi. Oggetti che parlano di necessità, di solitudine, di nostalgia. Oggetti consolatori, scaramantici. Oggetti desideranti. Che raccontano il bisogno di ripetere gesti familiari, a cui si è abituati. In carcere non esistono specchi in cui ritrarsi a figura intera. Un piatto di cartone metallizzato diventa un piccolo specchio da toilette: “Mi guardo e vedo solo la mia faccia – si legge nella didascalia – chissà dove è finito il resto del mio corpo”. Accanto un cartone con un rotolo di carta igienica appeso con un filo: “Perché nessuno ha pensato che quando sei al cesso non puoi tenerti la carta igienica in mano? (n.b.: il cesso in questione è una turca)”.

All’inizio del corso accademico una studentessa della Naba ha chiesto: “Perché dovremmo considerare arte un oggetto prodotto in carcere?”. Nel catalogo della mostra troviamo una possibile risposta: “Decontestualizzando questi oggetti, esponendoli in una mostra, motivandoli e raccontandoli noi tracciamo una loro biografia che ne esplicita e ne amplia i significati, trasformandoli in oggetti simbolici, dialoganti, in grado di produrre reazioni ed emozioni che prescindono dal loro significato originario”. Alla base di questo slittamento semantico c’è un’operazione di decontestualizzazione: il trasferimento di un oggetto dal proprio contesto naturale a un luogo che gli dà visibilità, che lo connette a un pubblico che ne ignorava l’esistenza, che ne evidenzia i significati e li racconta. Il lavoro interpretativo fatto con questa operazione, consiste nel rendere transitabile la distanza tra il dentro e il fuori. È un’opera di traduzione e di mediazione culturale dal visibile al dicibile, che mette in comunicazione linguaggi diversi.

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Un periodico fatto dalle persone detenute del carcere di Bollate, carteBollate, e una classe di studenti del corso di Social design della Naba (Nuova accademia di belle arti). Insieme, per tutto l’anno accademico che si è appena concluso, hanno raccolto gli oggetti autocostruiti che i detenuti creano per sopravvivere ai divieti, spesso incomprensibili, del carcere. Vietate le grattugie, gli uncinetti, gli strumenti per cucinare. Ammesse le penne biro, che all'occorrenza diventano ferri da calza (che invece sono vietati). La vita detentiva è fatta di privazioni, della necessità di riempire i vuoti, di ritrovare la quotidianità dei propri gesti. In tutto 50 oggetti, raccolti con un lungo lavoro di scavo, che ha coinvolto la parte più emarginata della popolazione carceraria, che ora sono riuniti in una mostra, Oggetti d'evasione, curata dal designer Alessandro Guerriero. Inaugurazione a Milano, nell'ambito della settimana del design, il 15 aprile alle 15 alla Fabbrica del Vapore in via Procaccini 4. Resterà aperta al pubblico fino al 21 aprile, poi migrerà nello spazio del Consorzio Vialedeimille, dove sono previsti incontri e laboratori, non tanto per parlare di questi oggetti, quanto per ascoltare quello che essi ci raccontano del carcere.

Quando si arriva in galera ci si spoglia di tutto, a partire dalla propria identità. Se sei stato un padre, un marito, un rapinatore, un operaio, un commerciante o un ladro adesso sei solo un numero di matricola, quello che ti viene assegnato all’ingresso. In carcere si entra con i propri vestiti, qualche volta con un ricambio e con il necessario per l’igiene personale se si è avuto il tempo di preparare una valigia prima dell’arresto. Il resto è tutto da riconquistare. Per capire i bisogni da cui nascono questi oggetti dobbiamo iniziare dall’assenza, dal vuoto, dalla privazione che accoglie il detenuto al suo primo ingresso in cella, un luogo intimo e violato, chiuso ma costantemente spiato, che guarda sul niente e lascia sognare il mondo.

Immaginiamo di esplorarne una a caso, singola o condivisa, arredata con niente: una branda, un materasso sporco e scomodo, che ha assorbito sofferenze stratificate negli anni. Muri scrostati, tracce delle foto o dei ritagli iconici di chi ha abitato quella stanza prima di noi. Un luogo in cui manca tutto e in cui non sai dove collocare te stesso e le poche cose che hai portato con te. È anche un microcosmo che consente di entrare in contatto con le minuzie della vita quotidiana, per poi allargare lo sguardo e cercare di conoscere il carcere nella sua complessità.

Riempire quel vuoto, abitarlo, renderlo vivibile, è quindi la prima necessità da cui parte la produzione di oggetti d’uso, decorativi, o affettivi. Oggetti che parlano di necessità, di solitudine, di nostalgia. Oggetti consolatori, scaramantici. Oggetti desideranti. Che raccontano il bisogno di ripetere gesti familiari, a cui si è abituati. In carcere non esistono specchi in cui ritrarsi a figura intera. Un piatto di cartone metallizzato diventa un piccolo specchio da toilette: “Mi guardo e vedo solo la mia faccia – si legge nella didascalia – chissà dove è finito il resto del mio corpo”. Accanto un cartone con un rotolo di carta igienica appeso con un filo: “Perché nessuno ha pensato che quando sei al cesso non puoi tenerti la carta igienica in mano? (n.b.: il cesso in questione è una turca)”.

All’inizio del corso accademico una studentessa della Naba ha chiesto: “Perché dovremmo considerare arte un oggetto prodotto in carcere?”. Nel catalogo della mostra troviamo una possibile risposta: “Decontestualizzando questi oggetti, esponendoli in una mostra, motivandoli e raccontandoli noi tracciamo una loro biografia che ne esplicita e ne amplia i significati, trasformandoli in oggetti simbolici, dialoganti, in grado di produrre reazioni ed emozioni che prescindono dal loro significato originario”. Alla base di questo slittamento semantico c’è un’operazione di decontestualizzazione: il trasferimento di un oggetto dal proprio contesto naturale a un luogo che gli dà visibilità, che lo connette a un pubblico che ne ignorava l’esistenza, che ne evidenzia i significati e li racconta. Il lavoro interpretativo fatto con questa operazione, consiste nel rendere transitabile la distanza tra il dentro e il fuori. È un’opera di traduzione e di mediazione culturale dal visibile al dicibile, che mette in comunicazione linguaggi diversi.

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I designer-detenuti di Bollate alla Design Week

18 0
15.04.2024

Un periodico fatto dalle persone detenute del carcere di Bollate, carteBollate, e una classe di studenti del corso di Social design della Naba (Nuova accademia di belle arti). Insieme, per tutto l’anno accademico che si è appena concluso, hanno raccolto gli oggetti autocostruiti che i detenuti creano per sopravvivere ai divieti, spesso incomprensibili, del carcere. Vietate le grattugie, gli uncinetti, gli strumenti per cucinare. Ammesse le penne biro, che all'occorrenza diventano ferri da calza (che invece sono vietati). La vita detentiva è fatta di privazioni, della necessità di riempire i vuoti, di ritrovare la quotidianità dei propri gesti. In tutto 50 oggetti, raccolti con un lungo lavoro di scavo, che ha coinvolto la parte più emarginata della popolazione carceraria, che ora sono riuniti in una mostra, Oggetti d'evasione, curata dal designer Alessandro Guerriero. Inaugurazione a Milano, nell'ambito della settimana del design, il 15 aprile alle 15 alla Fabbrica del Vapore in via Procaccini 4. Resterà aperta al pubblico fino al 21 aprile, poi migrerà nello spazio del Consorzio Vialedeimille, dove sono previsti incontri e laboratori, non tanto per parlare di questi oggetti, quanto per ascoltare quello che essi ci raccontano del carcere.

Quando si arriva in galera ci si spoglia di tutto, a partire dalla propria identità. Se sei stato un padre, un marito, un rapinatore, un operaio, un commerciante o un ladro adesso sei solo un numero di matricola, quello che ti viene assegnato all’ingresso. In carcere si entra con i propri vestiti, qualche volta con un ricambio e con il necessario per l’igiene personale se si è avuto il tempo di preparare una valigia prima dell’arresto. Il resto è tutto da riconquistare. Per capire i bisogni da cui nascono questi oggetti dobbiamo iniziare dall’assenza, dal vuoto, dalla privazione che accoglie il detenuto al suo primo ingresso in cella, un luogo intimo e violato, chiuso ma costantemente spiato, che guarda sul niente e lascia sognare il mondo.

Immaginiamo di esplorarne una a caso, singola o condivisa, arredata con niente: una branda, un materasso sporco e scomodo, che ha assorbito sofferenze stratificate negli anni. Muri scrostati, tracce delle foto o dei ritagli iconici di chi ha abitato quella stanza prima di noi. Un luogo in cui manca tutto e........

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