L’ultimo giorno dell’anno è da sempre un momento molto adatto a fare bilanci e a dichiarare buoni propositi. Ma se da giovani si hanno spesso grandi speranze verso l’anno che viene ed energia in abbondanza per credere e perseguire nuovi progetti, con l'avanzare del tempo di solito si diventa un po’ più cinici – o, quanto meno, disincantati. In un certo senso, credo si possa dire che con l’età si comincia a vedere con maggiore chiarezza la differenza tra quello che si vuole e quello che si desidera.

Ciò che vogliamo, infatti, di solito è banale: tutti vogliamo essere in salute, guadagnare più soldi, essere amati. Il problema vero è quello che si desidera, ovvero quello che vorremmo ci capitasse in futuro per farci vivere una vita diversa e migliore.

Da giovani quello che si vuole spesso è assicurato (raramente ci ammaliamo, qualcuno che ci ama c’è quasi sempre, e i soldi non sono un gran problema perché lo sono per qualcun altro) e perciò c’è grande spazio per i desideri. Ma con l’avanzare dell’età spesso quello che si vuole diventa più stringente, e quello che si desidera più confuso e poco credibile. Ecco, forse si potrebbe dire che in questo momento la nostra società è in una fase simile: sappiamo cosa vogliamo, ma non quello che desideriamo.

Per esempio, credo che non esista nessuno che non si auguri un mondo libero dalla guerra. Eppure, gli ultimi anni ci stanno mostrando come rinunciare a combattere può portare a gravi conseguenze. Dovremmo augurarci un 2024 in cui la pace torna in Ucraina e quindi la Russia prende feroce controllo di buona parte del suo territorio, rinforzandosi per rilanciare la sua offensiva sia civile che militare verso il resto d’Europa? O dovremmo sperare che i missili smettano di solcare i cieli di Gaza perché Israele ne ha assunto un controllo totale rafforzando il suo governo di estrema destra?

Certo, potremmo sperare che a Putin succeda qualcosa e che il popolo israeliano inneschi una specie di rivoluzione civile che faccia dimettere il premier Netanyahu. Tuttavia sappiamo anche bene che la deposizione di questi due leader non solo è assai improbabile – e quindi limitarsi ad augurarsela vorrebbe dire chiudere gli occhi di fronte al problema e lavarsene le mani – ma anche che ciò potrebbe portare a conseguenze ancora più nefaste, come un conflitto di potere o persino una guerra civile in una potenza nucleare.

Altro esempio: la democrazia. Tutti noi vorremmo un futuro più democratico. Ma poi il pensiero può correre al prossimo novembre, quando negli Stati Uniti la democrazia rischia sostanzialmente di suicidarsi, eleggendo chi la voleva soffocare. In maniera speculare, anche le elezioni a Taiwan fanno segretamente sperare che la democrazia “non vinca troppo”, magari alzando la tensione nel quadrante più esplosivo al mondo.

D’altra parte, la radicata democraticità di istituzioni come l’Unione Europea o le Conferenze delle parti per il clima producono spesso processi decisionali così lenti e a volte contraddittori da risultare esasperanti. Dovremmo augurarci ancora più democrazia anche in queste sedi? O piuttosto dovremmo sperare in qualche riforma che porti a un maggior decisionismo ed efficacia politica?

Infine – ma di esempi se ne potrebbero anche trovare altri – l’economia. Certamente tutti speriamo in un altro anno di crescita e di ricchezza economica, eppure sappiamo oramai molto bene che questo nel medio-lungo periodo porterà a pesanti conseguenze. In termini ambientali, anzitutto, ma probabilmente anche di disuguaglianza, data l’oramai assodata dinamica per cui i nuovi capitali tendono a concentrarsi nelle mani di chi già ne detiene.

Che l’attuale modello economico sia disfunzionale e che una sorta di decrescita sia la strada che il mondo dovrebbe intraprendere il prima possibile è talmente “scientifico” che recentemente è stata persino l’autorevolissima Nature ad affermarlo. Di massima, sappiamo cosa dovremmo fare per cambiare l’attuale paradigma socio-economico, ma allo stesso tempo non possiamo ignorare che la transizione sarebbe molto dolorosa e che il rischio di creare pericolosi squilibri a livello globale è molto alto.

Il fatto è che, almeno noi in Occidente, usciamo da alcuni decenni, gli ultimi del ventesimo secolo, di esuberante giovanilità, seguiti da circa un ventennio di progressive crisi e disillusioni. Si potrebbe in un certo senso dire che siamo in una sorta di crisi di mezza età, di quelle che poi portano alla piena età adulta o alla consolidata maturità. Di solito queste crisi vengono affrontate prima con un desiderio se non un vero e proprio tentativo di “rifarsi una vita”, e poi risolte assumendo un atteggiamento più arrendevole se non cinico, ma comunque più sereno.

La differenza è che noi come individui dobbiamo prima o poi arrenderci al fatto che il tempo passa e che un giorno noi non ci saremo più, mentre come comunità non possiamo arrenderci all’evidenza di un declino. Perché farlo lo provocherebbe irrimediabilmente, e questo nessuno lo vuole – credo che si possa già vedere quanto il diffuso pessimismo e disfattismo alimentato da media vecchi e nuovi sia sempre più non la conseguenza ma la causa della crisi politica e sociale che stiamo vivendo.

La questione, sperando di non abusare della metafora, è se risolversi a diventare degli anziani burberi convinti delle storture del mondo che si consolano tra bar e televisione in attesa dell’inevitabile, oppure comportarsi da affabili nonni, che magari dentro di loro sono pure convinti che i sogni dei nipotini sono irrealistici, ma che non esitano un attimo a lanciarsi con loro nel gioco degli astronauti o degli esploratori.

Si tratta, in fondo, di trovare un modo nuovo di stare insieme accettando il fatto che lo scenario è cambiato. Realizzare che siamo sempre più non tanto in un contesto di scarsità e di conflitto ma di abbondanza e cooperazione, e che però questo nuovo scenario comporta nuove importanti sfide e rischi. Dobbiamo passare da una società della crescita e della produzione centrata sull’individuo a una società della cura e del mantenimento centrata sulla relazione. E il passaggio non può che essere doloroso, per quanto necessario.

Dobbiamo insomma riscoprire cos’è per noi il progresso, e tornare ad avere fiducia in esso. Ritornare a credere che l’essere umano è molto più una risorsa che una minaccia; un creatore di generosità e cooperazione più che di egoismo e sopruso. Ma si dà il caso che gli esseri umani siamo noi stessi, quindi faremo meglio a cominciare a comportarci in modo tale di essere all’altezza dei nostri desideri.

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L’ultimo giorno dell’anno è da sempre un momento molto adatto a fare bilanci e a dichiarare buoni propositi. Ma se da giovani si hanno spesso grandi speranze verso l’anno che viene ed energia in abbondanza per credere e perseguire nuovi progetti, con l'avanzare del tempo di solito si diventa un po’ più cinici – o, quanto meno, disincantati. In un certo senso, credo si possa dire che con l’età si comincia a vedere con maggiore chiarezza la differenza tra quello che si vuole e quello che si desidera.

Ciò che vogliamo, infatti, di solito è banale: tutti vogliamo essere in salute, guadagnare più soldi, essere amati. Il problema vero è quello che si desidera, ovvero quello che vorremmo ci capitasse in futuro per farci vivere una vita diversa e migliore.

Da giovani quello che si vuole spesso è assicurato (raramente ci ammaliamo, qualcuno che ci ama c’è quasi sempre, e i soldi non sono un gran problema perché lo sono per qualcun altro) e perciò c’è grande spazio per i desideri. Ma con l’avanzare dell’età spesso quello che si vuole diventa più stringente, e quello che si desidera più confuso e poco credibile. Ecco, forse si potrebbe dire che in questo momento la nostra società è in una fase simile: sappiamo cosa vogliamo, ma non quello che desideriamo.

Per esempio, credo che non esista nessuno che non si auguri un mondo libero dalla guerra. Eppure, gli ultimi anni ci stanno mostrando come rinunciare a combattere può portare a gravi conseguenze. Dovremmo augurarci un 2024 in cui la pace torna in Ucraina e quindi la Russia prende feroce controllo di buona parte del suo territorio, rinforzandosi per rilanciare la sua offensiva sia civile che militare verso il resto d’Europa? O dovremmo sperare che i missili smettano di solcare i cieli di Gaza perché Israele ne ha assunto un controllo totale rafforzando il suo governo di estrema destra?

Certo, potremmo sperare che a Putin succeda qualcosa e che il popolo israeliano inneschi una specie di rivoluzione civile che faccia dimettere il premier Netanyahu. Tuttavia sappiamo anche bene che la deposizione di questi due leader non solo è assai improbabile – e quindi limitarsi ad augurarsela vorrebbe dire chiudere gli occhi di fronte al problema e lavarsene le mani – ma anche che ciò potrebbe portare a conseguenze ancora più nefaste, come un conflitto di potere o persino una guerra civile in una potenza nucleare.

Altro esempio: la democrazia. Tutti noi vorremmo un futuro più democratico. Ma poi il pensiero può correre al prossimo novembre, quando negli Stati Uniti la democrazia rischia sostanzialmente di suicidarsi, eleggendo chi la voleva soffocare. In maniera speculare, anche le elezioni a Taiwan fanno segretamente sperare che la democrazia “non vinca troppo”, magari alzando la tensione nel quadrante più esplosivo al mondo.

D’altra parte, la radicata democraticità di istituzioni come l’Unione Europea o le Conferenze delle parti per il clima producono spesso processi decisionali così lenti e a volte contraddittori da risultare esasperanti. Dovremmo augurarci ancora più democrazia anche in queste sedi? O piuttosto dovremmo sperare in qualche riforma che porti a un maggior decisionismo ed efficacia politica?

Infine – ma di esempi se ne potrebbero anche trovare altri – l’economia. Certamente tutti speriamo in un altro anno di crescita e di ricchezza economica, eppure sappiamo oramai molto bene che questo nel medio-lungo periodo porterà a pesanti conseguenze. In termini ambientali, anzitutto, ma probabilmente anche di disuguaglianza, data l’oramai assodata dinamica per cui i nuovi capitali tendono a concentrarsi nelle mani di chi già ne detiene.

Che l’attuale modello economico sia disfunzionale e che una sorta di decrescita sia la strada che il mondo dovrebbe intraprendere il prima possibile è talmente “scientifico” che recentemente è stata persino l’autorevolissima Nature ad affermarlo. Di massima, sappiamo cosa dovremmo fare per cambiare l’attuale paradigma socio-economico, ma allo stesso tempo non possiamo ignorare che la transizione sarebbe molto dolorosa e che il rischio di creare pericolosi squilibri a livello globale è molto alto.

Il fatto è che, almeno noi in Occidente, usciamo da alcuni decenni, gli ultimi del ventesimo secolo, di esuberante giovanilità, seguiti da circa un ventennio di progressive crisi e disillusioni. Si potrebbe in un certo senso dire che siamo in una sorta di crisi di mezza età, di quelle che poi portano alla piena età adulta o alla consolidata maturità. Di solito queste crisi vengono affrontate prima con un desiderio se non un vero e proprio tentativo di “rifarsi una vita”, e poi risolte assumendo un atteggiamento più arrendevole se non cinico, ma comunque più sereno.

La differenza è che noi come individui dobbiamo prima o poi arrenderci al fatto che il tempo passa e che un giorno noi non ci saremo più, mentre come comunità non possiamo arrenderci all’evidenza di un declino. Perché farlo lo provocherebbe irrimediabilmente, e questo nessuno lo vuole – credo che si possa già vedere quanto il diffuso pessimismo e disfattismo alimentato da media vecchi e nuovi sia sempre più non la conseguenza ma la causa della crisi politica e sociale che stiamo vivendo.

La questione, sperando di non abusare della metafora, è se risolversi a diventare degli anziani burberi convinti delle storture del mondo che si consolano tra bar e televisione in attesa dell’inevitabile, oppure comportarsi da affabili nonni, che magari dentro di loro sono pure convinti che i sogni dei nipotini sono irrealistici, ma che non esitano un attimo a lanciarsi con loro nel gioco degli astronauti o degli esploratori.

Si tratta, in fondo, di trovare un modo nuovo di stare insieme accettando il fatto che lo scenario è cambiato. Realizzare che siamo sempre più non tanto in un contesto di scarsità e di conflitto ma di abbondanza e cooperazione, e che però questo nuovo scenario comporta nuove importanti sfide e rischi. Dobbiamo passare da una società della crescita e della produzione centrata sull’individuo a una società della cura e del mantenimento centrata sulla relazione. E il passaggio non può che essere doloroso, per quanto necessario.

Dobbiamo insomma riscoprire cos’è per noi il progresso, e tornare ad avere fiducia in esso. Ritornare a credere che l’essere umano è molto più una risorsa che una minaccia; un creatore di generosità e cooperazione più che di egoismo e sopruso. Ma si dà il caso che gli esseri umani siamo noi stessi, quindi faremo meglio a cominciare a comportarci in modo tale di essere all’altezza dei nostri desideri.

QOSHE - Il nostro vero problema è che non sappiamo più che futuro desideriamo - Riccardo Maggiolo
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Il nostro vero problema è che non sappiamo più che futuro desideriamo

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31.12.2023

L’ultimo giorno dell’anno è da sempre un momento molto adatto a fare bilanci e a dichiarare buoni propositi. Ma se da giovani si hanno spesso grandi speranze verso l’anno che viene ed energia in abbondanza per credere e perseguire nuovi progetti, con l'avanzare del tempo di solito si diventa un po’ più cinici – o, quanto meno, disincantati. In un certo senso, credo si possa dire che con l’età si comincia a vedere con maggiore chiarezza la differenza tra quello che si vuole e quello che si desidera.

Ciò che vogliamo, infatti, di solito è banale: tutti vogliamo essere in salute, guadagnare più soldi, essere amati. Il problema vero è quello che si desidera, ovvero quello che vorremmo ci capitasse in futuro per farci vivere una vita diversa e migliore.

Da giovani quello che si vuole spesso è assicurato (raramente ci ammaliamo, qualcuno che ci ama c’è quasi sempre, e i soldi non sono un gran problema perché lo sono per qualcun altro) e perciò c’è grande spazio per i desideri. Ma con l’avanzare dell’età spesso quello che si vuole diventa più stringente, e quello che si desidera più confuso e poco credibile. Ecco, forse si potrebbe dire che in questo momento la nostra società è in una fase simile: sappiamo cosa vogliamo, ma non quello che desideriamo.

Per esempio, credo che non esista nessuno che non si auguri un mondo libero dalla guerra. Eppure, gli ultimi anni ci stanno mostrando come rinunciare a combattere può portare a gravi conseguenze. Dovremmo augurarci un 2024 in cui la pace torna in Ucraina e quindi la Russia prende feroce controllo di buona parte del suo territorio, rinforzandosi per rilanciare la sua offensiva sia civile che militare verso il resto d’Europa? O dovremmo sperare che i missili smettano di solcare i cieli di Gaza perché Israele ne ha assunto un controllo totale rafforzando il suo governo di estrema destra?

Certo, potremmo sperare che a Putin succeda qualcosa e che il popolo israeliano inneschi una specie di rivoluzione civile che faccia dimettere il premier Netanyahu. Tuttavia sappiamo anche bene che la deposizione di questi due leader non solo è assai improbabile – e quindi limitarsi ad augurarsela vorrebbe dire chiudere gli occhi di fronte al problema e lavarsene le mani – ma anche che ciò potrebbe portare a conseguenze ancora più nefaste, come un conflitto di potere o persino una guerra civile in una potenza nucleare.

Altro esempio: la democrazia. Tutti noi vorremmo un futuro più democratico. Ma poi il pensiero può correre al prossimo novembre, quando negli Stati Uniti la democrazia rischia sostanzialmente di suicidarsi, eleggendo chi la voleva soffocare. In maniera speculare, anche le elezioni a Taiwan fanno segretamente sperare che la democrazia “non vinca troppo”, magari alzando la tensione nel quadrante più esplosivo al mondo.

D’altra parte, la radicata democraticità di istituzioni come l’Unione Europea o le Conferenze delle parti per il clima producono spesso processi decisionali così lenti e a volte contraddittori da risultare esasperanti. Dovremmo augurarci ancora più democrazia anche in queste sedi? O piuttosto dovremmo sperare in qualche riforma che porti a un maggior decisionismo ed efficacia politica?

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