La nuova possibile revisione costituzionale, che vuole l’elezione diretta del presidente del Consiglio, darà maggiore importanza alla sovranità popolare? Il progetto sembra esaltarla eppure se ne può dubitare, perché potrebbe fare del voto un mezzo allo scopo di concentrare il potere senza temperamenti idonei.

Affidare all’elezione popolare diretta la scelta del Primo ministro è forse l’abbaglio più insidioso che si possa immaginare per le aspettative di partecipazione democratica, scambiando una modalità corroborata dall’esperienza storica delle democrazie parlamentari con una soluzione inedita e potenzialmente ingannevole. Questa sarebbe la delega incondizionata a una sola persona, quella è delega composita, in alcuni casi anche da interpretare, modulare e condurre, com’è nell’interesse autentico dei rappresentati.

Infatti - per non replicare l’effimero esperimento israeliano, fallito nel caos di un premier eletto dal popolo contraddetto dalla Knesseth, eletta in modo distinto e con metodo proporzionale - il corollario di un’elezione popolare diretta del Primo ministro nella versione nostrana è la conformità obbligata, per tutta la legislatura, tra premier e maggioranza parlamentare originaria. Cosicché le assemblee rappresentative sarebbero ridotte a un asservimento funzionale e non potrebbero determinare in autonomia l’indirizzo politico. Sarebbe sì il risultato di libere elezioni, ma la maggioranza parlamentare corrisponderà a una prevalenza in seggi ottenuti dalle formazioni politiche che hanno sostenuto il candidato premier risultato eletto, senza che ciò comporti necessariamente una prevalenza nei suffragi popolari, a causa delle inevitabili correzioni in senso maggioritario di qualsiasi formula elettorale sia adottata allo scopo. Ciò è nell’esperienza ricorrente di tutti i sistemi elettorali maggioritari o almeno corretti in senso maggioritario.

Non vi sarebbe di che preoccuparsi, sotto questo aspetto: senonché, la combinazione con l’elezione popolare diretta del Primo ministro e l’obbligo normativo di mantenere inalterata la maggioranza parlamentare che vi è connessa escludono il parlamento dalla potestà di adattare alle circostanze la direzione politica e le scelte di governo, insieme alla guida dell’esecutivo. Nella legislazione e nelle altre determinazioni proprie del parlamento, ogni decisione sarebbe perseguita sotto l’egida del premier, le discussioni deprivate di senso, le correzioni ridotte a quelle accettate o volute dallo stesso capo del governo.

Neppure nei sistemi presidenziali o semipresidenziali, con l’elezione diretta del massimo organo di responsabilità politica in una sola persona, il parlamento viene escluso o sottomesso. Nel primo caso si dà la forma del potere diviso, come nel modello americano, dove il Congresso detiene poteri assai rilevanti che bilanciano e possono persino contrastare i poteri del presidente eletto. Nella formula semipresidenziale, seppure in possibilità ormai residuale e rara, come in Francia, si prevede l’ipotesi di una coabitazione tra presidente della Repubblica e Primo ministro espressione di una maggioranza parlamentare difforme dalla composizione politica che ha determinato il successo elettorale del presidente.

Persino nel modello Westminster, che pure costituisce il riferimento ideale del c.d. premierato, la continuità in coerenza tra voto popolare, maggioranza parlamentare e premiership non è il risultato di un vincolo normativo che guida e registra il voto e vi conforma l’assetto di governo, ma il frutto di consuetudini costituzionali e soprattutto della dislocazione della competizione politica in uno spettro binario e della distribuzione del voto popolare nei collegi uninominali tra i due partiti maggiori.

Tuttavia, vi è sempre - realizzata più e più volte - la possibilità che l’affermazione di una terza forza possa impedire il successo di uno tra i due competitori tradizionali o comunque secondo un’alternativa tra due sole formazioni politiche e produrre invece un equilibrio per accordo tra partiti, diverso dai propositi pre-elettorali più accreditati. In sostanza, la fisiologia dei sistemi politici democratici vive anche di adattamenti a condizioni che possono non essere allineate lungo una traiettoria obbligata proveniente dal voto popolare e diretta alla scelta di una sola possibile leadership deliberativa, ma esige possibilità di conciliazione tra concorrenti se non anche tra avversari e gli adeguamenti alle circostanze da sviluppare negli organi, pure elettivi, ma a composizione plurale, che sono i parlamenti. Nel 1940, dinanzi all’aggressione nazista, Winston Churchill divenne Primo ministro proprio così e la Storia si è incaricata di benedire quella scelta.

È anche - codesta nuova forma di appello al popolo con effetti predeterminati da norme costituzionali - un’imprudenza nella misura dei poteri e dei controlli repubblicani, equilibrio che esige articolazione in correnti di pensiero, mediazioni e correzioni di orientamenti, non mai aut - aut.

Invece il capo del governo sarebbe eletto a costo di privare il Parlamento della sua funzione primaria, quella di rappresentare in modo compiuto il popolo sovrano, esprimere l’indirizzo politico scaturito dalle urne e determinato dai fatti, dare voce e peso anche alle minoranze.

Un possibile circuito vizioso, l’investitura plebiscitaria che inaridisce la fonte propria della democrazia (il voto popolare) dissimulando la combustione del suo frutto più maturo (le assemblee elettive). Solo qui, in Italia, avremmo un Primo ministro elettivo, un Parlamento ancillare e un presidente della Repubblica dimidiato. Così da rendere quasi impossibile adattare l’indirizzo politico e la guida del governo alle evenienze spesso imprevedibili al momento delle elezioni e alle volte tanto complesse da esigere un esercizio di responsabilità senza vincolo di mandato, piuttosto che l’ordalia di una ricorrente rimessione al corpo elettorale, già sperimentata in altri paesi senza essere, spesso, risolutiva.

Ecco la questione, nella discussione fuorviante che già è in corso. Si lamenta il vulnus ai poteri del presidente della Repubblica ma si trascura l’altro, non meno rilevante: il Parlamento ridotto a un consesso muto e obbediente, dopo essere stato mutilato dalla demagogia antipolitica e già in una crisi da frustrazione che rende quasi imbarazzante prenderne le difese.

Certo, il prestigio del Quirinale è indiscusso e ciò dà molte ragioni a una delle obiezioni, però è tempo che si levi anche la voce di chi crede che solo la rappresentanza plurale, propria di un parlamento dotato dei poteri necessari, può dare consistenza alla democrazia politica. Mentre l’apparenza del massimo impulso alla sovranità popolare, l’elezione diretta del premier, potrebbe risolversi nel suo contrario, per la dissoluzione delle forme e dei limiti in cui essa va esercitata.

Un aggiornamento del governo parlamentare sorretto da una formula elettorale che assicuri un rapporto genuino tra elettori ed eletti e integrato da dispositivi di stabilità, quali il potere di dare e revocare la fiducia al primo ministro da parte delle Camere riunite e la sfiducia costruttiva, potrebbe assicurare l’auspicata coerenza tra consenso popolare e indirizzo politico anche tra le successive tornate elettorali e allo stesso tempo rinvigorire il parlamento, e con esso la partecipazione dei cittadini che vi sono rappresentati, senza correre il rischio di avventure indesiderate e deboli di avvedute cautele.

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La nuova possibile revisione costituzionale, che vuole l’elezione diretta del presidente del Consiglio, darà maggiore importanza alla sovranità popolare? Il progetto sembra esaltarla eppure se ne può dubitare, perché potrebbe fare del voto un mezzo allo scopo di concentrare il potere senza temperamenti idonei.

Affidare all’elezione popolare diretta la scelta del Primo ministro è forse l’abbaglio più insidioso che si possa immaginare per le aspettative di partecipazione democratica, scambiando una modalità corroborata dall’esperienza storica delle democrazie parlamentari con una soluzione inedita e potenzialmente ingannevole. Questa sarebbe la delega incondizionata a una sola persona, quella è delega composita, in alcuni casi anche da interpretare, modulare e condurre, com’è nell’interesse autentico dei rappresentati.

Infatti - per non replicare l’effimero esperimento israeliano, fallito nel caos di un premier eletto dal popolo contraddetto dalla Knesseth, eletta in modo distinto e con metodo proporzionale - il corollario di un’elezione popolare diretta del Primo ministro nella versione nostrana è la conformità obbligata, per tutta la legislatura, tra premier e maggioranza parlamentare originaria. Cosicché le assemblee rappresentative sarebbero ridotte a un asservimento funzionale e non potrebbero determinare in autonomia l’indirizzo politico. Sarebbe sì il risultato di libere elezioni, ma la maggioranza parlamentare corrisponderà a una prevalenza in seggi ottenuti dalle formazioni politiche che hanno sostenuto il candidato premier risultato eletto, senza che ciò comporti necessariamente una prevalenza nei suffragi popolari, a causa delle inevitabili correzioni in senso maggioritario di qualsiasi formula elettorale sia adottata allo scopo. Ciò è nell’esperienza ricorrente di tutti i sistemi elettorali maggioritari o almeno corretti in senso maggioritario.

Non vi sarebbe di che preoccuparsi, sotto questo aspetto: senonché, la combinazione con l’elezione popolare diretta del Primo ministro e l’obbligo normativo di mantenere inalterata la maggioranza parlamentare che vi è connessa escludono il parlamento dalla potestà di adattare alle circostanze la direzione politica e le scelte di governo, insieme alla guida dell’esecutivo. Nella legislazione e nelle altre determinazioni proprie del parlamento, ogni decisione sarebbe perseguita sotto l’egida del premier, le discussioni deprivate di senso, le correzioni ridotte a quelle accettate o volute dallo stesso capo del governo.

Neppure nei sistemi presidenziali o semipresidenziali, con l’elezione diretta del massimo organo di responsabilità politica in una sola persona, il parlamento viene escluso o sottomesso. Nel primo caso si dà la forma del potere diviso, come nel modello americano, dove il Congresso detiene poteri assai rilevanti che bilanciano e possono persino contrastare i poteri del presidente eletto. Nella formula semipresidenziale, seppure in possibilità ormai residuale e rara, come in Francia, si prevede l’ipotesi di una coabitazione tra presidente della Repubblica e Primo ministro espressione di una maggioranza parlamentare difforme dalla composizione politica che ha determinato il successo elettorale del presidente.

Persino nel modello Westminster, che pure costituisce il riferimento ideale del c.d. premierato, la continuità in coerenza tra voto popolare, maggioranza parlamentare e premiership non è il risultato di un vincolo normativo che guida e registra il voto e vi conforma l’assetto di governo, ma il frutto di consuetudini costituzionali e soprattutto della dislocazione della competizione politica in uno spettro binario e della distribuzione del voto popolare nei collegi uninominali tra i due partiti maggiori.

Tuttavia, vi è sempre - realizzata più e più volte - la possibilità che l’affermazione di una terza forza possa impedire il successo di uno tra i due competitori tradizionali o comunque secondo un’alternativa tra due sole formazioni politiche e produrre invece un equilibrio per accordo tra partiti, diverso dai propositi pre-elettorali più accreditati. In sostanza, la fisiologia dei sistemi politici democratici vive anche di adattamenti a condizioni che possono non essere allineate lungo una traiettoria obbligata proveniente dal voto popolare e diretta alla scelta di una sola possibile leadership deliberativa, ma esige possibilità di conciliazione tra concorrenti se non anche tra avversari e gli adeguamenti alle circostanze da sviluppare negli organi, pure elettivi, ma a composizione plurale, che sono i parlamenti. Nel 1940, dinanzi all’aggressione nazista, Winston Churchill divenne Primo ministro proprio così e la Storia si è incaricata di benedire quella scelta.

È anche - codesta nuova forma di appello al popolo con effetti predeterminati da norme costituzionali - un’imprudenza nella misura dei poteri e dei controlli repubblicani, equilibrio che esige articolazione in correnti di pensiero, mediazioni e correzioni di orientamenti, non mai aut - aut.

Invece il capo del governo sarebbe eletto a costo di privare il Parlamento della sua funzione primaria, quella di rappresentare in modo compiuto il popolo sovrano, esprimere l’indirizzo politico scaturito dalle urne e determinato dai fatti, dare voce e peso anche alle minoranze.

Un possibile circuito vizioso, l’investitura plebiscitaria che inaridisce la fonte propria della democrazia (il voto popolare) dissimulando la combustione del suo frutto più maturo (le assemblee elettive). Solo qui, in Italia, avremmo un Primo ministro elettivo, un Parlamento ancillare e un presidente della Repubblica dimidiato. Così da rendere quasi impossibile adattare l’indirizzo politico e la guida del governo alle evenienze spesso imprevedibili al momento delle elezioni e alle volte tanto complesse da esigere un esercizio di responsabilità senza vincolo di mandato, piuttosto che l’ordalia di una ricorrente rimessione al corpo elettorale, già sperimentata in altri paesi senza essere, spesso, risolutiva.

Ecco la questione, nella discussione fuorviante che già è in corso. Si lamenta il vulnus ai poteri del presidente della Repubblica ma si trascura l’altro, non meno rilevante: il Parlamento ridotto a un consesso muto e obbediente, dopo essere stato mutilato dalla demagogia antipolitica e già in una crisi da frustrazione che rende quasi imbarazzante prenderne le difese.

Certo, il prestigio del Quirinale è indiscusso e ciò dà molte ragioni a una delle obiezioni, però è tempo che si levi anche la voce di chi crede che solo la rappresentanza plurale, propria di un parlamento dotato dei poteri necessari, può dare consistenza alla democrazia politica. Mentre l’apparenza del massimo impulso alla sovranità popolare, l’elezione diretta del premier, potrebbe risolversi nel suo contrario, per la dissoluzione delle forme e dei limiti in cui essa va esercitata.

Un aggiornamento del governo parlamentare sorretto da una formula elettorale che assicuri un rapporto genuino tra elettori ed eletti e integrato da dispositivi di stabilità, quali il potere di dare e revocare la fiducia al primo ministro da parte delle Camere riunite e la sfiducia costruttiva, potrebbe assicurare l’auspicata coerenza tra consenso popolare e indirizzo politico anche tra le successive tornate elettorali e allo stesso tempo rinvigorire il parlamento, e con esso la partecipazione dei cittadini che vi sono rappresentati, senza correre il rischio di avventure indesiderate e deboli di avvedute cautele.

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Il premierato darà maggiore importanza alla sovranità popolare?

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11.04.2024

La nuova possibile revisione costituzionale, che vuole l’elezione diretta del presidente del Consiglio, darà maggiore importanza alla sovranità popolare? Il progetto sembra esaltarla eppure se ne può dubitare, perché potrebbe fare del voto un mezzo allo scopo di concentrare il potere senza temperamenti idonei.

Affidare all’elezione popolare diretta la scelta del Primo ministro è forse l’abbaglio più insidioso che si possa immaginare per le aspettative di partecipazione democratica, scambiando una modalità corroborata dall’esperienza storica delle democrazie parlamentari con una soluzione inedita e potenzialmente ingannevole. Questa sarebbe la delega incondizionata a una sola persona, quella è delega composita, in alcuni casi anche da interpretare, modulare e condurre, com’è nell’interesse autentico dei rappresentati.

Infatti - per non replicare l’effimero esperimento israeliano, fallito nel caos di un premier eletto dal popolo contraddetto dalla Knesseth, eletta in modo distinto e con metodo proporzionale - il corollario di un’elezione popolare diretta del Primo ministro nella versione nostrana è la conformità obbligata, per tutta la legislatura, tra premier e maggioranza parlamentare originaria. Cosicché le assemblee rappresentative sarebbero ridotte a un asservimento funzionale e non potrebbero determinare in autonomia l’indirizzo politico. Sarebbe sì il risultato di libere elezioni, ma la maggioranza parlamentare corrisponderà a una prevalenza in seggi ottenuti dalle formazioni politiche che hanno sostenuto il candidato premier risultato eletto, senza che ciò comporti necessariamente una prevalenza nei suffragi popolari, a causa delle inevitabili correzioni in senso maggioritario di qualsiasi formula elettorale sia adottata allo scopo. Ciò è nell’esperienza ricorrente di tutti i sistemi elettorali maggioritari o almeno corretti in senso maggioritario.

Non vi sarebbe di che preoccuparsi, sotto questo aspetto: senonché, la combinazione con l’elezione popolare diretta del Primo ministro e l’obbligo normativo di mantenere inalterata la maggioranza parlamentare che vi è connessa escludono il parlamento dalla potestà di adattare alle circostanze la direzione politica e le scelte di governo, insieme alla guida dell’esecutivo. Nella legislazione e nelle altre determinazioni proprie del parlamento, ogni decisione sarebbe perseguita sotto l’egida del premier, le discussioni deprivate di senso, le correzioni ridotte a quelle accettate o volute dallo stesso capo del governo.

Neppure nei sistemi presidenziali o semipresidenziali, con l’elezione diretta del massimo organo di responsabilità politica in una sola persona, il parlamento viene escluso o sottomesso. Nel primo caso si dà la forma del potere diviso, come nel modello americano, dove il Congresso detiene poteri assai rilevanti che bilanciano e possono persino contrastare i poteri del presidente eletto. Nella formula semipresidenziale, seppure in possibilità ormai residuale e rara, come in Francia, si prevede l’ipotesi di una coabitazione tra presidente della Repubblica e Primo ministro espressione di una maggioranza parlamentare difforme dalla composizione politica che ha determinato il successo elettorale del presidente.

Persino nel modello Westminster, che pure costituisce il riferimento ideale del c.d. premierato, la continuità in coerenza tra voto popolare, maggioranza parlamentare e premiership non è il risultato di un vincolo normativo che guida e registra il voto e vi conforma l’assetto di governo, ma il frutto di consuetudini costituzionali e soprattutto della dislocazione della competizione politica in uno spettro binario e della distribuzione del voto popolare nei collegi uninominali tra i due partiti maggiori.

Tuttavia, vi è sempre - realizzata più e più volte - la possibilità che l’affermazione di una terza forza........

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