Scrivo ora perché non è l’otto marzo. Non è quel mese in cui, come panda in estinzione, ci festeggiano. Scrivo oggi perché è febbraio di un anno bisestile e c’è quel giorno in più. Oggi che siamo ad altre due donne ammazzate in due giorni. Oggi che il pensiero va a quel giorno in più, a quel tempo in più, per noi possibile.

Quello che servirebbe “per renderci conto”. Renderci conto di non andare, di non proseguire, di non cercare di spiegarci o comprendere più, una volta per tutte, quell’atteggiamento strano, quel momento che giustifichiamo, quell’ultimo incontro da concedere. Cosa ci serve ancora per capire quando? Quando dire basta? Quando non essere più compassionevoli o inutilmente comprensive credendo che le cose migliorino? Quando finalmente iniziare ad accettare che se stiamo bene noi e tagliamo fili, rapporti, concessioni a chi non merita, a chi ci incute paura ,timore o “solo“ non ci fa sentire giuste e meritevoli di ogni bene possibile anche i nostri figli staranno meglio?

Non c’è bisogno di ricorrenze, di tutela, di mimose o eventi pubblici. C’è bisogno di “crescere”. Noi, le nostre figlie, le nostre nipoti. Crescere in consapevolezza, nella solidità della nostra autostima, del nostro valore. C’è bisogno di imparare a saper mettere confini. Di capire subito quando ci stanno svalutando, quando non ci stanno amando, quando la violenza sta arrivando anche solo sotto forma di una occhiata che ci fa sentire sminuite. Da tempo non amo le manifestazioni per l’8 marzo. Quelle pubbliche, tipo sedute di alcolisti anonimi in cui tutte come panda ci rifugiamo e in cui, peggio ancora, si rifugia chi fra gli uomini si sente a posto dando l’ok a questo contentino primaverile per poi ricominciare punto a capo. Anche solo pubblicando una innocente foto in cui apprezza il culo della prima tizia trovata in rete.

Io li vedo i vostri volti, apparentemente instancabili donne di oggi, quando mi capita per lavoro di interagire con voi. Vedo le vostre espressioni quando vi parlo di assertività, quando vi racconto che è possibile imparare a esprimere quello che vogliamo, quello che sentiamo sia meglio per noi. Quando, arrivate per un momento cognitivamente formativo e dovuto che vi siete programmate, magari un semplice esercizio di scrittura, vi chiedo se vi sentite bene, se portate pesi che non volete, se pensate al passato e al futuro contemporaneamente e quanto tutto sia faticoso andare avanti e indietro nel tempo volendo conciliare tutto, accudire tutti, anche chi non merita e neanche conosce questa vostra fatica. La vedo la vostra fatica, la stanchezza. La vostra normale, quotidiana stanchezza.

Allora, io oggi non credo più di tanto in soluzioni politiche che tanto nessuno ha davvero voglia di trovare, in una società di paroloni ed eventi organizzati in giornate a tutela che mettono solo il cuore in pace a chi durante gli altri giorni poco fa.

Io credo che l’unica, vera, salvifica ed efficace soluzione sia davvero imparare a capire da sole come poter prenderci quel giorno in più. Quel tempo in più. Per pensare a noi. Senza scuse, senza dirci che non è possibile. Perché l’unica soluzione oggi è concederci di crescere, per comprendere come stiamo e cosa vogliamo davvero per noi e per la nostra vita.

Non ci pensa nessuno a noi stesse. Dobbiamo farlo noi. Provarci almeno. Per non farci manipolare, soggiogare, frustrare, sminuire. Per imparare a mettere confini sani. Per capire di non arrivare mai più a quell’ultimo appuntamento. Per fermarci prima.

Poi, se vogliamo anche andare a qualche manifestazione per l’8 marzo facciamolo. Male non fa se, prima di tutto, ci siamo fatte prima “noi stesse” del bene. Una volta tanto.

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Scrivo ora perché non è l’otto marzo. Non è quel mese in cui, come panda in estinzione, ci festeggiano. Scrivo oggi perché è febbraio di un anno bisestile e c’è quel giorno in più. Oggi che siamo ad altre due donne ammazzate in due giorni. Oggi che il pensiero va a quel giorno in più, a quel tempo in più, per noi possibile.

Quello che servirebbe “per renderci conto”. Renderci conto di non andare, di non proseguire, di non cercare di spiegarci o comprendere più, una volta per tutte, quell’atteggiamento strano, quel momento che giustifichiamo, quell’ultimo incontro da concedere. Cosa ci serve ancora per capire quando? Quando dire basta? Quando non essere più compassionevoli o inutilmente comprensive credendo che le cose migliorino? Quando finalmente iniziare ad accettare che se stiamo bene noi e tagliamo fili, rapporti, concessioni a chi non merita, a chi ci incute paura ,timore o “solo“ non ci fa sentire giuste e meritevoli di ogni bene possibile anche i nostri figli staranno meglio?

Non c’è bisogno di ricorrenze, di tutela, di mimose o eventi pubblici. C’è bisogno di “crescere”. Noi, le nostre figlie, le nostre nipoti. Crescere in consapevolezza, nella solidità della nostra autostima, del nostro valore. C’è bisogno di imparare a saper mettere confini. Di capire subito quando ci stanno svalutando, quando non ci stanno amando, quando la violenza sta arrivando anche solo sotto forma di una occhiata che ci fa sentire sminuite. Da tempo non amo le manifestazioni per l’8 marzo. Quelle pubbliche, tipo sedute di alcolisti anonimi in cui tutte come panda ci rifugiamo e in cui, peggio ancora, si rifugia chi fra gli uomini si sente a posto dando l’ok a questo contentino primaverile per poi ricominciare punto a capo. Anche solo pubblicando una innocente foto in cui apprezza il culo della prima tizia trovata in rete.

Io li vedo i vostri volti, apparentemente instancabili donne di oggi, quando mi capita per lavoro di interagire con voi. Vedo le vostre espressioni quando vi parlo di assertività, quando vi racconto che è possibile imparare a esprimere quello che vogliamo, quello che sentiamo sia meglio per noi. Quando, arrivate per un momento cognitivamente formativo e dovuto che vi siete programmate, magari un semplice esercizio di scrittura, vi chiedo se vi sentite bene, se portate pesi che non volete, se pensate al passato e al futuro contemporaneamente e quanto tutto sia faticoso andare avanti e indietro nel tempo volendo conciliare tutto, accudire tutti, anche chi non merita e neanche conosce questa vostra fatica. La vedo la vostra fatica, la stanchezza. La vostra normale, quotidiana stanchezza.

Allora, io oggi non credo più di tanto in soluzioni politiche che tanto nessuno ha davvero voglia di trovare, in una società di paroloni ed eventi organizzati in giornate a tutela che mettono solo il cuore in pace a chi durante gli altri giorni poco fa.

Io credo che l’unica, vera, salvifica ed efficace soluzione sia davvero imparare a capire da sole come poter prenderci quel giorno in più. Quel tempo in più. Per pensare a noi. Senza scuse, senza dirci che non è possibile. Perché l’unica soluzione oggi è concederci di crescere, per comprendere come stiamo e cosa vogliamo davvero per noi e per la nostra vita.

Non ci pensa nessuno a noi stesse. Dobbiamo farlo noi. Provarci almeno. Per non farci manipolare, soggiogare, frustrare, sminuire. Per imparare a mettere confini sani. Per capire di non arrivare mai più a quell’ultimo appuntamento. Per fermarci prima.

Poi, se vogliamo anche andare a qualche manifestazione per l’8 marzo facciamolo. Male non fa se, prima di tutto, ci siamo fatte prima “noi stesse” del bene. Una volta tanto.

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Care donne, scrivo ora perché non è l’8 marzo

5 0
28.02.2024

Scrivo ora perché non è l’otto marzo. Non è quel mese in cui, come panda in estinzione, ci festeggiano. Scrivo oggi perché è febbraio di un anno bisestile e c’è quel giorno in più. Oggi che siamo ad altre due donne ammazzate in due giorni. Oggi che il pensiero va a quel giorno in più, a quel tempo in più, per noi possibile.

Quello che servirebbe “per renderci conto”. Renderci conto di non andare, di non proseguire, di non cercare di spiegarci o comprendere più, una volta per tutte, quell’atteggiamento strano, quel momento che giustifichiamo, quell’ultimo incontro da concedere. Cosa ci serve ancora per capire quando? Quando dire basta? Quando non essere più compassionevoli o inutilmente comprensive credendo che le cose migliorino? Quando finalmente iniziare ad accettare che se stiamo bene noi e tagliamo fili, rapporti, concessioni a chi non merita, a chi ci incute paura ,timore o “solo“ non ci fa sentire giuste e meritevoli di ogni bene possibile anche i nostri figli staranno meglio?

Non c’è bisogno di ricorrenze, di tutela, di mimose o eventi pubblici. C’è bisogno di “crescere”. Noi, le nostre figlie, le nostre nipoti. Crescere in consapevolezza, nella solidità della nostra autostima, del nostro valore. C’è bisogno di imparare a saper mettere confini. Di capire subito quando ci stanno svalutando, quando non ci stanno amando, quando la violenza sta arrivando anche solo sotto forma di una occhiata che ci fa sentire sminuite. Da tempo non amo le manifestazioni per l’8 marzo. Quelle pubbliche, tipo sedute di alcolisti anonimi in cui tutte come panda ci rifugiamo e in cui, peggio ancora, si rifugia chi fra gli uomini si sente a posto dando l’ok a questo contentino primaverile per poi ricominciare punto a capo. Anche solo pubblicando una innocente foto in cui apprezza il culo della prima tizia trovata in rete.

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