Se qualcuno mettesse a rischio la sicurezza del vostro Paese, voi come reagireste? Suonava più o meno così la domanda che qualche giorno fa mi poneva un conoscente iraniano, mentre ragionavamo dell’attacco di Israele al consolato di Damasco e della massiccia, benché incruenta e annunciata con ampio anticipo, reazione di Teheran nella notte del 13 aprile. Seguita a sua volta dalla contro-reazione israeliana comunque circoscritta per evitare l’escalation di un conflitto regionale aperto temuto da tutti, e sempre possibile. Per molti cittadini dell’Europa occidentale, che dalla fine delle guerra fredda e almeno fino all’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022 hanno vissuto decenni di pace e prosperità lontane dalle guerre degli altri, quello della propria “sicurezza” da eventuali attacchi ostili non è mai stato il primo pensiero al risveglio. Ma in Iran non è affatto così: quello dell’attacco di Paesi ostili è da sempre un’ossessione per la dirigenza della Repubblica Islamica, di fatto circondata da Paesi non amici e da basi militari Usa e Nato, e tutta la popolazione vive costantemente, e ciclicamente in modo acuto, la paura della guerra.

Senza entrare nel merito delle ragioni di questa situazione, e della divergenza di opinioni nel Paese sull’opportunità/necessità di queste perenne tensioni tra Teheran e l’Occidente, per ora ci limitiamo a registrare che nell’ultimo mezzo secolo gli iraniani hanno vissuto prima le violenze della rivoluzione, poi gli otto anni di guerra seguiti all’invasione da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1980 - sostenuto dall’Occidente e dai Paesi arabi - e infine decenni di tensioni con la comunità internazionale.

Dall’aggressione dell’Iraq nel 1980 le strategie di difesa dell’Iran

Furono quegli otto anni di guerra - in cui Teheran si trovò sostanzialmente sola trovando un solo alleato nella Siria, e i missili iracheni colpivano le sue città - a determinare le successive strategie di difesa della Repubblica Islamica. Una difesa imperniata su un sempre più ambizioso programma missilistico e sulla creazione di un cordone di sicurezza al di fuori dei confini iraniani, affidato a milizie alleate (da Hezbollah in Libano ad Hamas a Gaza ai diversi gruppi attivi in Iraq e più di recente nello Yemen) cui affidare il compito - condizionatamente all’agenda specifica di ciascuna - di gestire i conflitti senza mettere a rischio il territorio iraniano. Si tratta delle cosiddetta strategia di difesa avanzata, che doveva far restare al sicuro il territorio iraniano, ma i cui equilibri sono stati fatti saltare - nel contesto della perdurante e sanguinosa guerra a Gaza e del conseguente intensificarsi delle azioni militari dei ‘proxy’ iraniani - dall’attacco di Israele contro il consolato iraniano di Damasco.

La nuova fase apertasi il primo aprile scorso è quella del superamento delle “linee rosse”: superate prima da Israele con un atto di guerra contro una sede diplomatica in violazione, sottolinea Teheran, del diritto internazionale; e poi dalla stessa dirigenza iraniana, con l’inedita decisione di un confronto diretto con Tel Aviv nonostante il rischio, sempre più reale, di un conflitto regionale. Ma se davvero l’attacco di Esfahan è stato compiuto da una quinta colonna interna all’Iran, che avrebbe agito per conto di Israele, non si tratterebbe affatto di una prima volta. Dal 2010 ai servizi segreti di Israele sono già stati attribuiti oltre una ventina di azioni ostili e di sabotaggio contro attività nucleari, industriali e militari iraniane: da una serie di omicidi mirati di scienziati nucleari ad attacchi cibernetici e con esplosivi, fino a un’esplosione ai danni dell’impianto nucleare di Natanz nel 2021 e a un attacco con piccoli droni a strutture produttive militari sempre di Esfahan. Pur senza mai rivendicare la paternità di tali atti, sono ormai oltre due decenni che Israele attacca la Repubblica Islamica dall’interno, dimostrando di avere non solo cruciali informazioni di intelligence ma anche, in tutta evidenza, persone infiltrate negli apparati più sensibili e pronte ad agire con tutti i mezzi. Un vulnus evidente nella capacità di difesa della Repubblica Islamica sul fronte interno.

Il nucleare iraniano, uno strumento di deterrenza che l’Occidente ha perso l’occasione di disinnescare

Una guerra-ombra che perdura da oltre un decennio è quella che si svolge in territorio siriano, dove l’Iran sostiene il presidente Bashar al Assad e dove Israele ha colpite numerose volte sia le milizie coordinate dall’Iran sia gli ufficiali dei Pasdaran, con un intensificarsi e un aumento della portata degli attacchi proprio negli ultimi sei mesi di guerra a Gaza. Ma un altro terreno di scontro è quello del programma nucleare iraniano, rispetto al quale Israele ha sempre sostenuto la linea dura in alternativa a quella diplomatica, approdata all’accordo multilaterale del 2015, il Jcpoa. L’Iran ha sempre respinto le accuse di pianificare la costruzione di un arsenale atomico - arsenale che invece detiene Israele, pur senza averlo mai dichiarato - ma certamente ha usato e usa tuttora il proprio programma nucleare come una leva per alzare il proprio potere negoziale con l’Occidente e come un potenziale strumento di deterrenza in caso di inasprimento delle tensioni. Firmando il Jcpoa dopo annose trattative, la Repubblica Islamica aveva tuttavia accettato di ridurre drasticamente il proprio programma nucleare, dichiaratamente civile, in cambio di una sospensione delle sanzioni relative a tale attività e dell’avvio di una nuova cooperazione economica con l’Occidente. Si è trattato di una significativa cessione di sovranità cui la Repubblica Islamica si è adeguata, non senza un laborioso confronto interno tra favorevoli e contrari, ma della quale non ha mai potuto raccogliere i risultati economici per la decisione - compiuta dall’amministrazione Trump e bene accolta da Israele - di abbandonare unilateralmente quell’accordo nel 2018 (ma il rischio che ciò avvenisse aveva impedito il decollo dell’intesa già dal 2016). Per la dirigenza iraniana questa vicenda ha messo fine ad ogni residua possibilità di dare fiducia agli Usa come all’Europa: gli Stati Uniti si sono ritirati da un accordo sancito dall’Onu, mentre i Paesi europei non hanno saputo trovare la strada per tener fede ai propri impegni ostacolati dalle sanzioni Usa congegnate in modo da colpire tutti quanti collaborassero economicamente con Teheran.

“Fiducia”, in questa vicenda, è la parola chiave: chi nella Repubblica Islamica non si era mai fidato dell’Occidente ha dimostrato di aver avuto ragione; coloro che ci avevano creduto, come i moderati del presidente Hassan Rouhani e il suo ministro degli Esteri Javad Zarif, hanno perso la scommessa e sono stati sconfitti ed emarginati politicamente. E così i conservatori più oltranzisti, grazie anche agli Usa e all’Europa, si sono ripresi tutto il controllo del Paese.

È stato dunque il “tradimento” occidentale ad aver innescato la nuova accelerazione sul nucleare, cominciata però soltanto nel 2019 - un anno dopo il ritiro Usa dall’accordo - e proseguita in modo più deciso dopo l’assassinio extragiudiziale del generale dei Pasdaran Qassem Soleimani e dopo il fallimento - nell’agosto 2022 - degli ultimi negoziati per un ritorno degli Usa nel Jcpoa. Se ora dunque l’Iran arricchisce l’uranio al 60% ed è molto più vicino a un’arma nucleare (ma per produrla e farne una testata missilistica ci vorrebbero uno-due anni due anni di tempo, secondo alcune stime) è perché la sua dirigenza è ormai convinta che negoziati e cedimenti sono inutili, se non controproducenti. E se il Jcpoa – almeno per come era stato allora concepito - è morto e sepolto, il rischio imminente di un confronto diretto tra Iran e Israele riporta alla luce quella mina per decenni inesplosa, cioè la possibilità che Teheran si avvii a produrlo davvero, un ordigno nucleare. Vi fosse un’escalation bellica, Teheran può infatti accelerare ulteriormente l’arricchimento dell’uranio e avvicinarsi ad un uso militare del programma nucleare. Lo aveva fatto intuire Ahmad Haghtalab, comandante dell’unità dei Pasdaran responsabile della sicurezza dei siti nucleari iraniani: una minaccia israeliana contro tali strutture, ha detto, potrebbero spingere Teheran a riconsiderare le proprie politiche in materia. Varie le modalità in cui questo potrebbe accadere: una ripresa dell’arricchimento dell’uranio, la rottura definitiva della collaborazione dell’Aiea e la cessazione di ogni sua attività ispettiva, il ritiro dell’Iran dal Trattato di non proliferazione nucleare (al quale del resto non aderisce Israele, che non accetta nemmeno le ispezioni dell’Aiea) fino a una reale ed effettiva militarizzazione del suo nucleare civile. Ma basterebbe anche un solo passo in questa direzione perché si aprissero le porte dell’inferno. Anche per questo finora le azioni iraniane sono state guidate da un attento calcolo delle modalità e conseguenze - come anche il pur inedito attacco del 13 aprile ha dimostrato - ed è probabile che anche in futuro farà altrettato, sempre che la situazione non diventi completamente fuori controllo.

Ma veramente l’Iran vuole distruggere Israele?

Domanda legittima, visto che questa affermazione è un mantra tornato di pressante attualità, anche se le ragioni delle ostilità decennali tra Israele e la Repubblica Islamica vanno ben oltre tale semplificazione, e implicano la funzionalità della causa palestinese alla ricerca di consensi nelle opinioni pubbliche arabe, la volontà egemonica di Teheran nella regione e il suo ergersi a campione dell’indipendenza rispetto quello che oggi chiameremmo Sud globale dalla superpotenza americana.

“La posizione iraniana non è cambiata nel tempo, al di là delle provocatorie affermazioni dell’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad”, precisa in proposito l’analista iraniano Akbar Dareini, già responsabile dell’ufficio dell’Associated Press a Teheran e autore di una storia in tre volumi del programma nucleare iraniano. Posizione che si basa, prosegue, su due pilastri: l’Iran da una parte non riconosce lo Stato di Israele, dall’altra ha proposto un referendum cui partecipino i musulmani, i cristiani, gli ebrei e le altre popolazioni locali, compresi quelli che vivono come profughi all’estero - cosa che sancirebbe nei fatti la superiorità numerica dei palestinesi. Nella visione iraniana, osserva ancora l’analista, “Israele è dunque uno Stato basato sull’occupazione, e il progetto sionista è l’ultima espressione del colonialismo. L’Iran non ha alcuna responsabilità né piano per la distruzione di Israele, ma si schiera con tutte le nazioni che non ne vogliono l’esistenza”. Al tempo stesso, conclude, Teheran sostiene l’istituzione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967: cosa che indirettamente implica la presenza di un’altra entità statuale, se questo fosse l’esito dello stesso referendum.

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Se qualcuno mettesse a rischio la sicurezza del vostro Paese, voi come reagireste? Suonava più o meno così la domanda che qualche giorno fa mi poneva un conoscente iraniano, mentre ragionavamo dell’attacco di Israele al consolato di Damasco e della massiccia, benché incruenta e annunciata con ampio anticipo, reazione di Teheran nella notte del 13 aprile. Seguita a sua volta dalla contro-reazione israeliana comunque circoscritta per evitare l’escalation di un conflitto regionale aperto temuto da tutti, e sempre possibile. Per molti cittadini dell’Europa occidentale, che dalla fine delle guerra fredda e almeno fino all’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022 hanno vissuto decenni di pace e prosperità lontane dalle guerre degli altri, quello della propria “sicurezza” da eventuali attacchi ostili non è mai stato il primo pensiero al risveglio. Ma in Iran non è affatto così: quello dell’attacco di Paesi ostili è da sempre un’ossessione per la dirigenza della Repubblica Islamica, di fatto circondata da Paesi non amici e da basi militari Usa e Nato, e tutta la popolazione vive costantemente, e ciclicamente in modo acuto, la paura della guerra.

Senza entrare nel merito delle ragioni di questa situazione, e della divergenza di opinioni nel Paese sull’opportunità/necessità di queste perenne tensioni tra Teheran e l’Occidente, per ora ci limitiamo a registrare che nell’ultimo mezzo secolo gli iraniani hanno vissuto prima le violenze della rivoluzione, poi gli otto anni di guerra seguiti all’invasione da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1980 - sostenuto dall’Occidente e dai Paesi arabi - e infine decenni di tensioni con la comunità internazionale.

Dall’aggressione dell’Iraq nel 1980 le strategie di difesa dell’Iran

Furono quegli otto anni di guerra - in cui Teheran si trovò sostanzialmente sola trovando un solo alleato nella Siria, e i missili iracheni colpivano le sue città - a determinare le successive strategie di difesa della Repubblica Islamica. Una difesa imperniata su un sempre più ambizioso programma missilistico e sulla creazione di un cordone di sicurezza al di fuori dei confini iraniani, affidato a milizie alleate (da Hezbollah in Libano ad Hamas a Gaza ai diversi gruppi attivi in Iraq e più di recente nello Yemen) cui affidare il compito - condizionatamente all’agenda specifica di ciascuna - di gestire i conflitti senza mettere a rischio il territorio iraniano. Si tratta delle cosiddetta strategia di difesa avanzata, che doveva far restare al sicuro il territorio iraniano, ma i cui equilibri sono stati fatti saltare - nel contesto della perdurante e sanguinosa guerra a Gaza e del conseguente intensificarsi delle azioni militari dei ‘proxy’ iraniani - dall’attacco di Israele contro il consolato iraniano di Damasco.

La nuova fase apertasi il primo aprile scorso è quella del superamento delle “linee rosse”: superate prima da Israele con un atto di guerra contro una sede diplomatica in violazione, sottolinea Teheran, del diritto internazionale; e poi dalla stessa dirigenza iraniana, con l’inedita decisione di un confronto diretto con Tel Aviv nonostante il rischio, sempre più reale, di un conflitto regionale. Ma se davvero l’attacco di Esfahan è stato compiuto da una quinta colonna interna all’Iran, che avrebbe agito per conto di Israele, non si tratterebbe affatto di una prima volta. Dal 2010 ai servizi segreti di Israele sono già stati attribuiti oltre una ventina di azioni ostili e di sabotaggio contro attività nucleari, industriali e militari iraniane: da una serie di omicidi mirati di scienziati nucleari ad attacchi cibernetici e con esplosivi, fino a un’esplosione ai danni dell’impianto nucleare di Natanz nel 2021 e a un attacco con piccoli droni a strutture produttive militari sempre di Esfahan. Pur senza mai rivendicare la paternità di tali atti, sono ormai oltre due decenni che Israele attacca la Repubblica Islamica dall’interno, dimostrando di avere non solo cruciali informazioni di intelligence ma anche, in tutta evidenza, persone infiltrate negli apparati più sensibili e pronte ad agire con tutti i mezzi. Un vulnus evidente nella capacità di difesa della Repubblica Islamica sul fronte interno.

Il nucleare iraniano, uno strumento di deterrenza che l’Occidente ha perso l’occasione di disinnescare

Una guerra-ombra che perdura da oltre un decennio è quella che si svolge in territorio siriano, dove l’Iran sostiene il presidente Bashar al Assad e dove Israele ha colpite numerose volte sia le milizie coordinate dall’Iran sia gli ufficiali dei Pasdaran, con un intensificarsi e un aumento della portata degli attacchi proprio negli ultimi sei mesi di guerra a Gaza. Ma un altro terreno di scontro è quello del programma nucleare iraniano, rispetto al quale Israele ha sempre sostenuto la linea dura in alternativa a quella diplomatica, approdata all’accordo multilaterale del 2015, il Jcpoa. L’Iran ha sempre respinto le accuse di pianificare la costruzione di un arsenale atomico - arsenale che invece detiene Israele, pur senza averlo mai dichiarato - ma certamente ha usato e usa tuttora il proprio programma nucleare come una leva per alzare il proprio potere negoziale con l’Occidente e come un potenziale strumento di deterrenza in caso di inasprimento delle tensioni. Firmando il Jcpoa dopo annose trattative, la Repubblica Islamica aveva tuttavia accettato di ridurre drasticamente il proprio programma nucleare, dichiaratamente civile, in cambio di una sospensione delle sanzioni relative a tale attività e dell’avvio di una nuova cooperazione economica con l’Occidente. Si è trattato di una significativa cessione di sovranità cui la Repubblica Islamica si è adeguata, non senza un laborioso confronto interno tra favorevoli e contrari, ma della quale non ha mai potuto raccogliere i risultati economici per la decisione - compiuta dall’amministrazione Trump e bene accolta da Israele - di abbandonare unilateralmente quell’accordo nel 2018 (ma il rischio che ciò avvenisse aveva impedito il decollo dell’intesa già dal 2016). Per la dirigenza iraniana questa vicenda ha messo fine ad ogni residua possibilità di dare fiducia agli Usa come all’Europa: gli Stati Uniti si sono ritirati da un accordo sancito dall’Onu, mentre i Paesi europei non hanno saputo trovare la strada per tener fede ai propri impegni ostacolati dalle sanzioni Usa congegnate in modo da colpire tutti quanti collaborassero economicamente con Teheran.

“Fiducia”, in questa vicenda, è la parola chiave: chi nella Repubblica Islamica non si era mai fidato dell’Occidente ha dimostrato di aver avuto ragione; coloro che ci avevano creduto, come i moderati del presidente Hassan Rouhani e il suo ministro degli Esteri Javad Zarif, hanno perso la scommessa e sono stati sconfitti ed emarginati politicamente. E così i conservatori più oltranzisti, grazie anche agli Usa e all’Europa, si sono ripresi tutto il controllo del Paese.

È stato dunque il “tradimento” occidentale ad aver innescato la nuova accelerazione sul nucleare, cominciata però soltanto nel 2019 - un anno dopo il ritiro Usa dall’accordo - e proseguita in modo più deciso dopo l’assassinio extragiudiziale del generale dei Pasdaran Qassem Soleimani e dopo il fallimento - nell’agosto 2022 - degli ultimi negoziati per un ritorno degli Usa nel Jcpoa. Se ora dunque l’Iran arricchisce l’uranio al 60% ed è molto più vicino a un’arma nucleare (ma per produrla e farne una testata missilistica ci vorrebbero uno-due anni due anni di tempo, secondo alcune stime) è perché la sua dirigenza è ormai convinta che negoziati e cedimenti sono inutili, se non controproducenti. E se il Jcpoa – almeno per come era stato allora concepito - è morto e sepolto, il rischio imminente di un confronto diretto tra Iran e Israele riporta alla luce quella mina per decenni inesplosa, cioè la possibilità che Teheran si avvii a produrlo davvero, un ordigno nucleare. Vi fosse un’escalation bellica, Teheran può infatti accelerare ulteriormente l’arricchimento dell’uranio e avvicinarsi ad un uso militare del programma nucleare. Lo aveva fatto intuire Ahmad Haghtalab, comandante dell’unità dei Pasdaran responsabile della sicurezza dei siti nucleari iraniani: una minaccia israeliana contro tali strutture, ha detto, potrebbero spingere Teheran a riconsiderare le proprie politiche in materia. Varie le modalità in cui questo potrebbe accadere: una ripresa dell’arricchimento dell’uranio, la rottura definitiva della collaborazione dell’Aiea e la cessazione di ogni sua attività ispettiva, il ritiro dell’Iran dal Trattato di non proliferazione nucleare (al quale del resto non aderisce Israele, che non accetta nemmeno le ispezioni dell’Aiea) fino a una reale ed effettiva militarizzazione del suo nucleare civile. Ma basterebbe anche un solo passo in questa direzione perché si aprissero le porte dell’inferno. Anche per questo finora le azioni iraniane sono state guidate da un attento calcolo delle modalità e conseguenze - come anche il pur inedito attacco del 13 aprile ha dimostrato - ed è probabile che anche in futuro farà altrettato, sempre che la situazione non diventi completamente fuori controllo.

Ma veramente l’Iran vuole distruggere Israele?

Domanda legittima, visto che questa affermazione è un mantra tornato di pressante attualità, anche se le ragioni delle ostilità decennali tra Israele e la Repubblica Islamica vanno ben oltre tale semplificazione, e implicano la funzionalità della causa palestinese alla ricerca di consensi nelle opinioni pubbliche arabe, la volontà egemonica di Teheran nella regione e il suo ergersi a campione dell’indipendenza rispetto quello che oggi chiameremmo Sud globale dalla superpotenza americana.

“La posizione iraniana non è cambiata nel tempo, al di là delle provocatorie affermazioni dell’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad”, precisa in proposito l’analista iraniano Akbar Dareini, già responsabile dell’ufficio dell’Associated Press a Teheran e autore di una storia in tre volumi del programma nucleare iraniano. Posizione che si basa, prosegue, su due pilastri: l’Iran da una parte non riconosce lo Stato di Israele, dall’altra ha proposto un referendum cui partecipino i musulmani, i cristiani, gli ebrei e le altre popolazioni locali, compresi quelli che vivono come profughi all’estero - cosa che sancirebbe nei fatti la superiorità numerica dei palestinesi. Nella visione iraniana, osserva ancora l’analista, “Israele è dunque uno Stato basato sull’occupazione, e il progetto sionista è l’ultima espressione del colonialismo. L’Iran non ha alcuna responsabilità né piano per la distruzione di Israele, ma si schiera con tutte le nazioni che non ne vogliono l’esistenza”. Al tempo stesso, conclude, Teheran sostiene l’istituzione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967: cosa che indirettamente implica la presenza di un’altra entità statuale, se questo fosse l’esito dello stesso referendum.

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Iran-Israele, l'escalation dal punto di vista di Teheran

17 1
22.04.2024

Se qualcuno mettesse a rischio la sicurezza del vostro Paese, voi come reagireste? Suonava più o meno così la domanda che qualche giorno fa mi poneva un conoscente iraniano, mentre ragionavamo dell’attacco di Israele al consolato di Damasco e della massiccia, benché incruenta e annunciata con ampio anticipo, reazione di Teheran nella notte del 13 aprile. Seguita a sua volta dalla contro-reazione israeliana comunque circoscritta per evitare l’escalation di un conflitto regionale aperto temuto da tutti, e sempre possibile. Per molti cittadini dell’Europa occidentale, che dalla fine delle guerra fredda e almeno fino all’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022 hanno vissuto decenni di pace e prosperità lontane dalle guerre degli altri, quello della propria “sicurezza” da eventuali attacchi ostili non è mai stato il primo pensiero al risveglio. Ma in Iran non è affatto così: quello dell’attacco di Paesi ostili è da sempre un’ossessione per la dirigenza della Repubblica Islamica, di fatto circondata da Paesi non amici e da basi militari Usa e Nato, e tutta la popolazione vive costantemente, e ciclicamente in modo acuto, la paura della guerra.

Senza entrare nel merito delle ragioni di questa situazione, e della divergenza di opinioni nel Paese sull’opportunità/necessità di queste perenne tensioni tra Teheran e l’Occidente, per ora ci limitiamo a registrare che nell’ultimo mezzo secolo gli iraniani hanno vissuto prima le violenze della rivoluzione, poi gli otto anni di guerra seguiti all’invasione da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1980 - sostenuto dall’Occidente e dai Paesi arabi - e infine decenni di tensioni con la comunità internazionale.

Dall’aggressione dell’Iraq nel 1980 le strategie di difesa dell’Iran

Furono quegli otto anni di guerra - in cui Teheran si trovò sostanzialmente sola trovando un solo alleato nella Siria, e i missili iracheni colpivano le sue città - a determinare le successive strategie di difesa della Repubblica Islamica. Una difesa imperniata su un sempre più ambizioso programma missilistico e sulla creazione di un cordone di sicurezza al di fuori dei confini iraniani, affidato a milizie alleate (da Hezbollah in Libano ad Hamas a Gaza ai diversi gruppi attivi in Iraq e più di recente nello Yemen) cui affidare il compito - condizionatamente all’agenda specifica di ciascuna - di gestire i conflitti senza mettere a rischio il territorio iraniano. Si tratta delle cosiddetta strategia di difesa avanzata, che doveva far restare al sicuro il territorio iraniano, ma i cui equilibri sono stati fatti saltare - nel contesto della perdurante e sanguinosa guerra a Gaza e del conseguente intensificarsi delle azioni militari dei ‘proxy’ iraniani - dall’attacco di Israele contro il consolato iraniano di Damasco.

La nuova fase apertasi il primo aprile scorso è quella del superamento delle “linee rosse”: superate prima da Israele con un atto di guerra contro una sede diplomatica in violazione, sottolinea Teheran, del diritto internazionale; e poi dalla stessa dirigenza iraniana, con l’inedita decisione di un confronto diretto con Tel Aviv nonostante il rischio, sempre più reale, di un conflitto regionale. Ma se davvero l’attacco di Esfahan è stato compiuto da una quinta colonna interna all’Iran, che avrebbe agito per conto di Israele, non si tratterebbe affatto di una prima volta. Dal 2010 ai servizi segreti di Israele sono già stati attribuiti oltre una ventina di azioni ostili e di sabotaggio contro attività nucleari, industriali e militari iraniane: da una serie di omicidi mirati di scienziati nucleari ad attacchi cibernetici e con esplosivi, fino a un’esplosione ai danni dell’impianto nucleare di Natanz nel 2021 e a un attacco con piccoli droni a strutture produttive militari sempre di Esfahan. Pur senza mai rivendicare la paternità di tali atti, sono ormai oltre due decenni che Israele attacca la Repubblica Islamica dall’interno, dimostrando di avere non solo cruciali informazioni di intelligence ma anche, in tutta evidenza, persone infiltrate negli apparati più sensibili e pronte ad agire con tutti i mezzi. Un vulnus evidente nella capacità di difesa della Repubblica Islamica sul fronte interno.

Il nucleare iraniano, uno strumento di deterrenza che l’Occidente ha perso l’occasione di disinnescare

Una guerra-ombra che perdura da oltre un decennio è quella che si svolge in territorio siriano, dove l’Iran sostiene il presidente Bashar al Assad e dove Israele ha colpite numerose volte sia le milizie coordinate dall’Iran sia gli ufficiali dei Pasdaran, con un intensificarsi e un aumento della portata degli attacchi proprio negli ultimi sei mesi di guerra a Gaza. Ma un altro terreno di scontro è quello del programma nucleare iraniano, rispetto al quale Israele ha sempre sostenuto la linea dura in alternativa a quella diplomatica, approdata all’accordo multilaterale del 2015, il Jcpoa. L’Iran ha sempre respinto le accuse di pianificare la costruzione di un arsenale atomico - arsenale che invece detiene Israele, pur senza averlo mai dichiarato - ma certamente ha usato e usa tuttora il proprio programma nucleare come una leva per alzare il proprio potere negoziale con l’Occidente e come un potenziale strumento di deterrenza in caso di inasprimento delle tensioni. Firmando il Jcpoa dopo annose trattative, la Repubblica Islamica aveva tuttavia accettato di ridurre drasticamente il proprio programma nucleare, dichiaratamente civile, in cambio di una sospensione delle sanzioni relative a tale attività e dell’avvio di una nuova cooperazione economica........

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