Sotto la spinta di parole d'ordine come "doppia transizione" e "autonomia strategica", la politica industriale è al centro della scena europea. Dopo anni in cui il 'discorso' economico di Bruxelles era dominato da concorrenza e liberalizzazioni, è tornata prepotente l'esigenza di un intervento pubblico a sostegno dell'industria.

Lo testimoniano gli atti più recenti - il Chips Act, il Net Zero Industry Act, il Critical Raw Materials Act e il Piano Industriale del Green Deal - e un Consiglio che chiede da qualche anno una "politica industriale ambiziosa" per sostenere la transizione verde e digitale ed aiutare la competitività europea.

Cosa significa per un Paese come l'Italia, anche in vista delle elezioni europee, questo passaggio?

C'è prima di tutto una questione di piena 'assunzione' del tema nel nostro linguaggio politico. Il che significa adeguarsi, con continuità, a quello che hanno fatto altri Paesi già dall'inizio del millennio. A partire dalla Francia, in cui il timore della desindustrialisation è stato il motore di un'iniziativa politica oramai di lunga lena, che ha visto in campo Primi ministri e Presidenti e che comincia a dare i suoi frutti. Oppure alla centralità bipartisan del tema nella vicenda britannica: come testimoniano le strategie adottate dai governi conservatori in reazione alla Brexit e il rilievo che ha nel programma del Labour.

Se, quindi, il presupposto è questa maggiore assunzione di centralità della ‘questione industriale’, ci si deve interrogare 'per' fare cosa.

Su questo ci sono due piani di azione: uno interno e uno esterno.

Dal primo punto di vista è il tempo di darsi una organica strategia industriale: lo hanno fatto, negli anni più recenti, Francia, Germania e Regno Unito. Un passaggio rituale, se vogliamo, ma che è importante per 'dare' una direzione di marcia politica rispetto all'industria; per indicare, in dialogo con quelle europee, le priorità italiane; per 'riconnettersi' al mondo della produzione. C’è, poi, da affrontare con decisione la questione organizzativa. Se guardiamo ad altre esperienze troviamo organismi di analisi e valutazione delle politiche, raccordi più stretti tra attori del livello statale e di quello regionale, più incisive forme di coordinamento delle risorse. In ultimo, tema cruciale, è definire azioni specifiche sui singoli settori di interesse italiano: da quelli più tradizionali, a partire da quello automobilistico, nel mezzo della sua transizione più difficile, sino ad altri ambiti, potenzialmente ad alto valore aggiunto. Pensiamo, ad esempio, a creatività e cultura, su cui solo da poco sembra affermarsi anche da noi una visione di sistema, o ad una vera e propria ‘politica industriale per le aree interne’, che riconnetta contrasto allo spopolamento e preservazione delle tradizioni alla crescita economica.

A questo primo piano d'azione vanno aggiunte le iniziative italiane in una prospettiva ‘esterna’. In un programma che delinei l'Europa di domani, non ci deve essere, come propone la Commissione, un Fondo sovrano a chiara vocazione industrialista, un nuovo Next Generation con cui realizzare gli investimenti necessari a “doppia transizione” ed “autonomia strategica”? Per un Paese come il nostro che ha nel suo Dna la questione del ‘dualismo’ territoriale non è qualificante portare con decisione all'interno della politica industriale europea il tema della coesione? Non è interessante seguire, in questa direzione, le tendenze più recenti che ci arrivano dagli Stati Uniti, in cui è sempre più chiara l'esigenza di tenere insieme la dimensione dell’High Tech con l’evitare l'insorgere di ulteriori differenziazioni?

Sono solo alcune delle ipotesi di lavoro su cui orientarsi in un tema che per ragioni politiche e geoeconomiche è destinato a rimanere sull'agenda europea per molti anni a venire. E che tocca l'Italia e la sua identità economica alla radice. Con un’ultima suggestione. Altiero Spinelli, commissario europeo “all’industria” all’inizio degli anni Settanta, poneva al cuore della sua azione temi oggi attualissimi: compatibilità ambientale dello sviluppo; focalizzazione sulle industrie del futuro; partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa; il venture capital per sostenere la nuova impresa innovativa. Quando si avvicinano le elezioni europee non potrebbe essere questa l’occasione per riprendere anche quella lezione - purtroppo inascoltata - dello Statista di Ventotene?

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Sotto la spinta di parole d'ordine come "doppia transizione" e "autonomia strategica", la politica industriale è al centro della scena europea. Dopo anni in cui il 'discorso' economico di Bruxelles era dominato da concorrenza e liberalizzazioni, è tornata prepotente l'esigenza di un intervento pubblico a sostegno dell'industria.

Lo testimoniano gli atti più recenti - il Chips Act, il Net Zero Industry Act, il Critical Raw Materials Act e il Piano Industriale del Green Deal - e un Consiglio che chiede da qualche anno una "politica industriale ambiziosa" per sostenere la transizione verde e digitale ed aiutare la competitività europea.

Cosa significa per un Paese come l'Italia, anche in vista delle elezioni europee, questo passaggio?

C'è prima di tutto una questione di piena 'assunzione' del tema nel nostro linguaggio politico. Il che significa adeguarsi, con continuità, a quello che hanno fatto altri Paesi già dall'inizio del millennio. A partire dalla Francia, in cui il timore della desindustrialisation è stato il motore di un'iniziativa politica oramai di lunga lena, che ha visto in campo Primi ministri e Presidenti e che comincia a dare i suoi frutti. Oppure alla centralità bipartisan del tema nella vicenda britannica: come testimoniano le strategie adottate dai governi conservatori in reazione alla Brexit e il rilievo che ha nel programma del Labour.

Se, quindi, il presupposto è questa maggiore assunzione di centralità della ‘questione industriale’, ci si deve interrogare 'per' fare cosa.

Su questo ci sono due piani di azione: uno interno e uno esterno.

Dal primo punto di vista è il tempo di darsi una organica strategia industriale: lo hanno fatto, negli anni più recenti, Francia, Germania e Regno Unito. Un passaggio rituale, se vogliamo, ma che è importante per 'dare' una direzione di marcia politica rispetto all'industria; per indicare, in dialogo con quelle europee, le priorità italiane; per 'riconnettersi' al mondo della produzione. C’è, poi, da affrontare con decisione la questione organizzativa. Se guardiamo ad altre esperienze troviamo organismi di analisi e valutazione delle politiche, raccordi più stretti tra attori del livello statale e di quello regionale, più incisive forme di coordinamento delle risorse. In ultimo, tema cruciale, è definire azioni specifiche sui singoli settori di interesse italiano: da quelli più tradizionali, a partire da quello automobilistico, nel mezzo della sua transizione più difficile, sino ad altri ambiti, potenzialmente ad alto valore aggiunto. Pensiamo, ad esempio, a creatività e cultura, su cui solo da poco sembra affermarsi anche da noi una visione di sistema, o ad una vera e propria ‘politica industriale per le aree interne’, che riconnetta contrasto allo spopolamento e preservazione delle tradizioni alla crescita economica.

A questo primo piano d'azione vanno aggiunte le iniziative italiane in una prospettiva ‘esterna’. In un programma che delinei l'Europa di domani, non ci deve essere, come propone la Commissione, un Fondo sovrano a chiara vocazione industrialista, un nuovo Next Generation con cui realizzare gli investimenti necessari a “doppia transizione” ed “autonomia strategica”? Per un Paese come il nostro che ha nel suo Dna la questione del ‘dualismo’ territoriale non è qualificante portare con decisione all'interno della politica industriale europea il tema della coesione? Non è interessante seguire, in questa direzione, le tendenze più recenti che ci arrivano dagli Stati Uniti, in cui è sempre più chiara l'esigenza di tenere insieme la dimensione dell’High Tech con l’evitare l'insorgere di ulteriori differenziazioni?

Sono solo alcune delle ipotesi di lavoro su cui orientarsi in un tema che per ragioni politiche e geoeconomiche è destinato a rimanere sull'agenda europea per molti anni a venire. E che tocca l'Italia e la sua identità economica alla radice. Con un’ultima suggestione. Altiero Spinelli, commissario europeo “all’industria” all’inizio degli anni Settanta, poneva al cuore della sua azione temi oggi attualissimi: compatibilità ambientale dello sviluppo; focalizzazione sulle industrie del futuro; partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa; il venture capital per sostenere la nuova impresa innovativa. Quando si avvicinano le elezioni europee non potrebbe essere questa l’occasione per riprendere anche quella lezione - purtroppo inascoltata - dello Statista di Ventotene?

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Il tempo della politica industriale, guardando all’Europa

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08.01.2024

Sotto la spinta di parole d'ordine come "doppia transizione" e "autonomia strategica", la politica industriale è al centro della scena europea. Dopo anni in cui il 'discorso' economico di Bruxelles era dominato da concorrenza e liberalizzazioni, è tornata prepotente l'esigenza di un intervento pubblico a sostegno dell'industria.

Lo testimoniano gli atti più recenti - il Chips Act, il Net Zero Industry Act, il Critical Raw Materials Act e il Piano Industriale del Green Deal - e un Consiglio che chiede da qualche anno una "politica industriale ambiziosa" per sostenere la transizione verde e digitale ed aiutare la competitività europea.

Cosa significa per un Paese come l'Italia, anche in vista delle elezioni europee, questo passaggio?

C'è prima di tutto una questione di piena 'assunzione' del tema nel nostro linguaggio politico. Il che significa adeguarsi, con continuità, a quello che hanno fatto altri Paesi già dall'inizio del millennio. A partire dalla Francia, in cui il timore della desindustrialisation è stato il motore di un'iniziativa politica oramai di lunga lena, che ha visto in campo Primi ministri e Presidenti e che comincia a dare i suoi frutti. Oppure alla centralità bipartisan del tema nella vicenda britannica: come testimoniano le strategie adottate dai governi conservatori in reazione alla Brexit e il rilievo che ha nel programma del Labour.

Se, quindi, il presupposto è questa maggiore assunzione di centralità della ‘questione industriale’, ci si deve interrogare 'per' fare cosa.

Su questo ci sono due piani di azione: uno interno e uno esterno.

Dal primo punto di vista è il tempo di darsi una organica strategia industriale: lo hanno fatto, negli anni più recenti, Francia, Germania e Regno Unito. Un passaggio rituale, se vogliamo, ma che è importante per 'dare' una direzione di marcia politica rispetto all'industria; per indicare, in dialogo con quelle europee, le priorità italiane; per 'riconnettersi' al mondo della produzione. C’è, poi, da affrontare con decisione la questione organizzativa. Se guardiamo ad altre esperienze troviamo organismi di analisi e valutazione delle politiche, raccordi più stretti tra attori del livello statale e di quello regionale, più incisive........

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