In un articolo di Maurizio Maggiani su “La Stampa” dal titolo Quei volti violati dal tempo che riaccendono la memoria c’è una sua affermazione che mi ha colpito quando dice di non credere che l’essere umano si compendi nel suo lavoro, o per lo meno non solo lì: perché una vita è sempre più grande del lavoro che la sostiene, che un muratore sia molto più delle sue mani e che quel di più lo racconti con la sua faccia, il suo sguardo.

È proprio vero, ma forse vale anzitutto per chi un lavoro ce l’ha o di un lavoro gode i frutti. A questo ho ripensato leggendo il libro di un giornalista - da “La Repubblica” a “La Stampa”- una volta si sarebbe detto impegnato: Niccolò Zancan, Antologia degli sconfitti. Cronaca quasi poetica del presente, uscito da poco per Einaudi. E alla signora Egle Zorzan, in particolare, ottant’anni, incontrata al mercato di Porta Palazzo a Torino dove restavano cumuli di rifiuti in terra. Zancan si ferma per osservarla: è una donna con le gambe magre, sta proprio lì in mezzo, vestita con una lunga gonna elegante e un giaccone nero, e sembrava avere perso qualcosa in un cassonetto dell’immondizia. Si sporgeva al punto che stava per caderci dentro. Fino a quando quella signora spuntò fuori dal bidone con due mazzi di carote, uno per mano. Nel settembre del 1959 – racconta Egle – erano sbarcati dal Veneto col marito alla stazione di Porta Nuova “come dei terroni del Nord”. Avevano con loro i figli, due valigie e un contratto alle carrozzerie di Mirafiori. Erano stati felici insieme con uno stipendio sicuro, le vacanze in agosto a Loano e una automobile per muoversi. Era rimasta vedova e le cose avevano iniziato a precipitare, fino sull’orlo di quel cassonetto dell’immondizia.

Una storia che si lega a un’altra storia più generale di crisi, quella della ex capitale del fordismo e alla biografia dello stesso autore nato a Torino nel 1971 quando la grande metropoli del triangolo industriale era un mosaico di speranze, ognuno contribuiva a quel miracolo con la sua stessa vita. Quell’anno sembrava una scommessa che tutti erano convinti di vincere, e la scommessa diceva pressappoco cosí: le cose, tutte le cose, le cose di tutti, si aggiusteranno. Andrà meglio. La città era la fabbrica. Ora non più.

Anche a Milano la povertà assoluta comincia a vedersi per le strade – e parliamo sempre del Nord – dove ci sono due code che spiegano bene quello che sta succedendo. La prima si forma ogni giorno davanti alla sede dell’associazione Pane Quotidiano. È una coda lunghissima, centinaia di metri, occupa interi isolati: «Stanno aumentando», dice Luigi Rossi a Zancan, il vicepresidente. «Negli ultimi mesi arrivano più italiani. Segno che i risparmi stanno finendo. Uomini di mezza età che ormai, purtroppo, sono andati oltre alla rabbia e al risentimento”. Ma c’è un’altra coda a cui pochi fanno caso, nonostante sia altrettanto visibile. Si forma alle sette di mattina nelle stazioni periferiche di Milano: Barona, Quarto Oggiaro, San Donato. E da lì si trasferisce davanti ai tornelli della metropolitana. Sono ragazze e ragazzi lavoratori: impiegati, camerieri, grafici, addetti alle manutenzioni, sportellisti, facchini, baristi, commessi. Arrivano presto a Milano, perché Milano ha bisogno di loro. Hanno un lavoro, uno stipendio ma – osserva – non possono permettersi di vivere a Milano.

E questa coda forse può richiamare il titolo del libro. Gli sconfitti sono di tanti tipi. Come la ex moglie che chiede al suo avvocato se il marito manesco, previa denuncia, andrà in galera. No, le risponde. «È molto improbabile. Gli daranno delle misure restrittive»: nonostante i lividi e il timpano dell’orecchio sinistro che produce un rumore continuo, esasperante. O sconfitta non meno è la ragazza che in un villaggio turistico deve esibirsi ricoperta di cioccolato, sul buffet, in costume da bagno: “Passavano le persone – confessa davvero con toni quasi poetici – e io le sentivo commentare. Sentivo il rumore dei piatti”. Ancora, tra le tantissime storie: la giornalaia che tiene duro per anni mentre tutte le edicole vicine a lei chiudono e poi è costretta anche lei ad abbassare la saracinesca. O la sconfitta (epocale è il caso di dire) di intere categorie come quella dei correttori di bozza – di cui sono stata testimone anch’io se pur non nelle redazioni dei giornali – i correttori di bozze “i guardiani delle parole.” Il loro era un lavoro “antico dentro al mondo nuovo” conclude Zancan “Ma a un certo punto, presi dall’ansia di inseguire qualcosa che nemmeno sapevamo mettere a fuoco, abbiamo rinunciato all’unico strumento che avrebbe potuto salvarci nell’indistinto caos della comunicazione odierna: la cura”.

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In un articolo di Maurizio Maggiani su “La Stampa” dal titolo Quei volti violati dal tempo che riaccendono la memoria c’è una sua affermazione che mi ha colpito quando dice di non credere che l’essere umano si compendi nel suo lavoro, o per lo meno non solo lì: perché una vita è sempre più grande del lavoro che la sostiene, che un muratore sia molto più delle sue mani e che quel di più lo racconti con la sua faccia, il suo sguardo.

È proprio vero, ma forse vale anzitutto per chi un lavoro ce l’ha o di un lavoro gode i frutti. A questo ho ripensato leggendo il libro di un giornalista - da “La Repubblica” a “La Stampa”- una volta si sarebbe detto impegnato: Niccolò Zancan, Antologia degli sconfitti. Cronaca quasi poetica del presente, uscito da poco per Einaudi. E alla signora Egle Zorzan, in particolare, ottant’anni, incontrata al mercato di Porta Palazzo a Torino dove restavano cumuli di rifiuti in terra. Zancan si ferma per osservarla: è una donna con le gambe magre, sta proprio lì in mezzo, vestita con una lunga gonna elegante e un giaccone nero, e sembrava avere perso qualcosa in un cassonetto dell’immondizia. Si sporgeva al punto che stava per caderci dentro. Fino a quando quella signora spuntò fuori dal bidone con due mazzi di carote, uno per mano. Nel settembre del 1959 – racconta Egle – erano sbarcati dal Veneto col marito alla stazione di Porta Nuova “come dei terroni del Nord”. Avevano con loro i figli, due valigie e un contratto alle carrozzerie di Mirafiori. Erano stati felici insieme con uno stipendio sicuro, le vacanze in agosto a Loano e una automobile per muoversi. Era rimasta vedova e le cose avevano iniziato a precipitare, fino sull’orlo di quel cassonetto dell’immondizia.

Una storia che si lega a un’altra storia più generale di crisi, quella della ex capitale del fordismo e alla biografia dello stesso autore nato a Torino nel 1971 quando la grande metropoli del triangolo industriale era un mosaico di speranze, ognuno contribuiva a quel miracolo con la sua stessa vita. Quell’anno sembrava una scommessa che tutti erano convinti di vincere, e la scommessa diceva pressappoco cosí: le cose, tutte le cose, le cose di tutti, si aggiusteranno. Andrà meglio. La città era la fabbrica. Ora non più.

Anche a Milano la povertà assoluta comincia a vedersi per le strade – e parliamo sempre del Nord – dove ci sono due code che spiegano bene quello che sta succedendo. La prima si forma ogni giorno davanti alla sede dell’associazione Pane Quotidiano. È una coda lunghissima, centinaia di metri, occupa interi isolati: «Stanno aumentando», dice Luigi Rossi a Zancan, il vicepresidente. «Negli ultimi mesi arrivano più italiani. Segno che i risparmi stanno finendo. Uomini di mezza età che ormai, purtroppo, sono andati oltre alla rabbia e al risentimento”. Ma c’è un’altra coda a cui pochi fanno caso, nonostante sia altrettanto visibile. Si forma alle sette di mattina nelle stazioni periferiche di Milano: Barona, Quarto Oggiaro, San Donato. E da lì si trasferisce davanti ai tornelli della metropolitana. Sono ragazze e ragazzi lavoratori: impiegati, camerieri, grafici, addetti alle manutenzioni, sportellisti, facchini, baristi, commessi. Arrivano presto a Milano, perché Milano ha bisogno di loro. Hanno un lavoro, uno stipendio ma – osserva – non possono permettersi di vivere a Milano.

E questa coda forse può richiamare il titolo del libro. Gli sconfitti sono di tanti tipi. Come la ex moglie che chiede al suo avvocato se il marito manesco, previa denuncia, andrà in galera. No, le risponde. «È molto improbabile. Gli daranno delle misure restrittive»: nonostante i lividi e il timpano dell’orecchio sinistro che produce un rumore continuo, esasperante. O sconfitta non meno è la ragazza che in un villaggio turistico deve esibirsi ricoperta di cioccolato, sul buffet, in costume da bagno: “Passavano le persone – confessa davvero con toni quasi poetici – e io le sentivo commentare. Sentivo il rumore dei piatti”. Ancora, tra le tantissime storie: la giornalaia che tiene duro per anni mentre tutte le edicole vicine a lei chiudono e poi è costretta anche lei ad abbassare la saracinesca. O la sconfitta (epocale è il caso di dire) di intere categorie come quella dei correttori di bozza – di cui sono stata testimone anch’io se pur non nelle redazioni dei giornali – i correttori di bozze “i guardiani delle parole.” Il loro era un lavoro “antico dentro al mondo nuovo” conclude Zancan “Ma a un certo punto, presi dall’ansia di inseguire qualcosa che nemmeno sapevamo mettere a fuoco, abbiamo rinunciato all’unico strumento che avrebbe potuto salvarci nell’indistinto caos della comunicazione odierna: la cura”.

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Antologia quasi poetica degli sconfitti

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15.03.2024

In un articolo di Maurizio Maggiani su “La Stampa” dal titolo Quei volti violati dal tempo che riaccendono la memoria c’è una sua affermazione che mi ha colpito quando dice di non credere che l’essere umano si compendi nel suo lavoro, o per lo meno non solo lì: perché una vita è sempre più grande del lavoro che la sostiene, che un muratore sia molto più delle sue mani e che quel di più lo racconti con la sua faccia, il suo sguardo.

È proprio vero, ma forse vale anzitutto per chi un lavoro ce l’ha o di un lavoro gode i frutti. A questo ho ripensato leggendo il libro di un giornalista - da “La Repubblica” a “La Stampa”- una volta si sarebbe detto impegnato: Niccolò Zancan, Antologia degli sconfitti. Cronaca quasi poetica del presente, uscito da poco per Einaudi. E alla signora Egle Zorzan, in particolare, ottant’anni, incontrata al mercato di Porta Palazzo a Torino dove restavano cumuli di rifiuti in terra. Zancan si ferma per osservarla: è una donna con le gambe magre, sta proprio lì in mezzo, vestita con una lunga gonna elegante e un giaccone nero, e sembrava avere perso qualcosa in un cassonetto dell’immondizia. Si sporgeva al punto che stava per caderci dentro. Fino a quando quella signora spuntò fuori dal bidone con due mazzi di carote, uno per mano. Nel settembre del 1959 – racconta Egle – erano sbarcati dal Veneto col marito alla stazione di Porta Nuova “come dei terroni del Nord”. Avevano con loro i figli, due valigie e un contratto alle carrozzerie di Mirafiori. Erano stati felici insieme con uno stipendio sicuro, le vacanze in agosto a Loano e una automobile per muoversi. Era rimasta vedova e le cose avevano iniziato a precipitare, fino sull’orlo di quel cassonetto dell’immondizia.

Una storia che si lega a un’altra storia più generale di crisi, quella della ex capitale del fordismo e alla biografia dello stesso autore nato a Torino nel 1971 quando la grande metropoli del triangolo industriale era un mosaico di speranze, ognuno contribuiva a quel miracolo con la sua stessa vita. Quell’anno sembrava una scommessa che tutti erano convinti di vincere, e la scommessa diceva pressappoco cosí: le cose, tutte le cose, le cose di tutti, si aggiusteranno. Andrà meglio. La città era la fabbrica. Ora non più.

Anche a Milano la povertà assoluta comincia a vedersi per le strade – e parliamo sempre del Nord – dove ci........

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