Dopo lo spaventoso pogrom del 7 ottobre, com'era prevedibile (e certamente sperato dai vertici di Hamas, e non solo da loro) l'ovvia durissima reazione israeliana ha rinfocolato in tutto il mondo le mai spente braci dell'odio verso gli ebrei. Si tratta di un problema generale, che tocca in modo diverso aree geografiche, culturali, religiose e sociali differenti, sollevando una serie di problemi specifici (ad esempio il complesso rapporto col mondo cattolico, che, nonostante il grande cammino fatto dopo il Concilio, fatica oggi a trovare una sua efficace posizione tra il bellicoso "sionismo" messianico di una parte degli evangelici e il punto di vista dei cristiani arabi). Specialmente però esiste un rilevante, grande problema con quell'universo, che definiamo (vuol dire poco in sé, ma qui è inevitabile usare questa dizione) sinistra.

In tutto il mondo, Israele sembra sempre più trovare appoggi a destra, anche in aree politiche e da esponenti con un passato e un presente a dir poco ambigui riguardo all'antisemitismo, e trova invece numerose dure critiche nel mondo progressista, di cui pure moltissimi ebrei continuano (grazie a Dio!) a far parte.

Sostenere le ragioni di Israele sembra dunque sempre più qualcosa che può essere giusto o sbagliato: ma di certo non è qualcosa "di sinistra". Le cose stanno però diversamente. Sarebbe ora (se non ora, quando?, che, per la cronaca, oltre che il titolo di un bellissimo romanzo di Primo Levi, è un'espressione che proviene da un trattato dell'ebraica Mishna', il Pirke' Avoth) di cominciare a dirlo senza timidezze, con molta pazienza ma con altrettanta fermezza. Ci sono almeno tre grandi ragioni per le quali essere sionisti è infatti una cosa "di sinistra".

Per prima cosa, il sionismo è un movimento di liberazione, liberazione da due millenni di discriminazioni, oppressioni, violenze, stermini subiti dagli ebrei in tutto il mondo. Non a caso i primi sionisti si ispiravano al movimento risorgimentale italiano, preso a modello di rinascita dopo secoli di frammentazione e oppressione. Ma allora, e per più di mezzo secolo, i sionisti erano una minoranza tra gli ebrei, la maggioranza dei quali credeva nell'uguaglianza e nell'integrazione promesse dagli ideali della Rivoluzione francese. Molti di quegli ebrei morirono nei campi di sterminio europei. Dopo la Shoà, una maggioranza sempre più larga (oggi si può parlare di quasi totalità) degli ebrei è diventata sionista. Israele è lo scudo che garantisce a tutti gli ebrei nel mondo il diritto all'esistenza. Ma l'esistenza di Israele non è scontata. Ancora oggi numerosi Stati e organizzazioni influenti, ricchi e potenti non la riconoscono e si propongono di distruggerla, strumentalizzando gli arabi palestinesi e la loro giusta rivendicazione di uno Stato. Israele è un paese piccolo come metà della Lombardia, con meno abitanti di una metropoli. La difesa di Israele (difesa reale e concreta, non teorica e astratta) da chi vuole distruggerla nulla toglie in sé alla difesa di altri diritti, e dovrebbe essere sentito come un dovere da ogni persona che ricosce come proprio orizzonte culturale e dunque politico gli ideali dell'Illuminismo e dell'autodeterminazione.

Ma il sionismo (seconda ragione) non è solo un movimento di liberazione. Il sionismo è stato un'espressione della classe lavoratrice di origine ebraica. Non fu primariamente la borghesia, furono gli strati più poveri delle società ebraiche, insieme a una appassionata porzione di intellettuali, a puntare sul sionismo. Per questo motivo ben presto i socialisti presero l'egemonia nel movimento sionista. Israele è stata costruita dalle cooperative di lavoratori (i kibbutzim e i moshavim, in cui si sperimentarono e ancora si sperimentano forme molto avanzate di autogestione della produzione e di comunione della proprietà), dal sindacato e dal partito laburista. Israele è una delle creazioni della potenza costituente del movimento operaio del Novecento. Chiunque si ispiri alla storia dei socialismi e dei comunismi (anche e specialmente le correnti più libertarie) e alle correnti del cristianesimo più avanzate socialmente dovrebbe riconoscere che le radici di Israele sono le sue stesse radici, e, di più, che Israele costituisce uno dei più importanti esempi di ciò che può creare l'autorganizzazione del sociale.

Infine (terza ragione) anche oggi Israele è uno straordinario laboratorio di mobilitazione sociale. Il grande movimento per la difesa della democrazia contro Netanyahu non solo ha dimostrato che un'altra Israele, rispetto alla coalizione reazionaria, razzista, oscurantista di Netanyahu è possibile; di più, è realtà e futuro di Israele. In senso più essenziale, ha mostrato che le radici di Israele nel socialismo dell'autogestione sono ancora vive, pur nella crisi e insieme nel rinnovamento, dei tempi, delle parole, delle definizioni. Da una parte il ruolo forte e rinnovato dei due capisaldi sociali tradizionali della sinistra israeliana, il sindacato e i kibbutz (compresi quelli orribilmente colpiti il 7 ottobre), nonostante la crisi del partito laburista e in generale della sinistra politica storica. Dall'altra nuove forme di partecipazione e di autorganizzazione che hanno coinvolto strati sempre più larghi della società israeliana, del lavoro vivo, tra i giovani e in quella produzione cognitiva oggi centrale nell'economia israeliana. Il movimento non è finito con la guerra, è tornato in piazza sugli ostaggi e sta cominciando a chiedere elezioni anticipate per mandare via dal governo Netanyahu e i suoi alleati. Il movimento è naturalmente motivo di speranza per il bene di Israele, dei palestinesi e di tutto il Medio Oriente e il Mediterraneo. Ma dovrebbe anche essere studiato (nelle pratiche e forme di organizzazione e di lotta e nell'inedita composizione sociale, ovviamente anche nei suoi limiti e nelle sue contraddizioni) ed essere dunque fonte di ispirazione, per chiunque creda che il rinnovamento di una politica di sinistra, orientata al bene comune, alla democrazia e alla giustizia sociale, passi necessariamente dalla riattivazione della società e dallo sviluppo dei suoi movimenti.

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Tre ragioni di sinistra per essere sionisti

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15.01.2024

Dopo lo spaventoso pogrom del 7 ottobre, com'era prevedibile (e certamente sperato dai vertici di Hamas, e non solo da loro) l'ovvia durissima reazione israeliana ha rinfocolato in tutto il mondo le mai spente braci dell'odio verso gli ebrei. Si tratta di un problema generale, che tocca in modo diverso aree geografiche, culturali, religiose e sociali differenti, sollevando una serie di problemi specifici (ad esempio il complesso rapporto col mondo cattolico, che, nonostante il grande cammino fatto dopo il Concilio, fatica oggi a trovare una sua efficace posizione tra il bellicoso "sionismo" messianico di una parte degli evangelici e il punto di vista dei cristiani arabi). Specialmente però esiste un rilevante, grande problema con quell'universo, che definiamo (vuol dire poco in sé, ma qui è inevitabile usare questa dizione) sinistra.

In tutto il mondo, Israele sembra sempre più trovare appoggi a destra, anche in aree politiche e da esponenti con un passato e un presente a dir poco ambigui riguardo all'antisemitismo, e trova invece numerose dure critiche nel mondo progressista, di cui pure moltissimi ebrei continuano (grazie a Dio!) a far parte.

Sostenere le ragioni di Israele sembra dunque sempre più qualcosa che può essere giusto o sbagliato: ma di certo non è qualcosa "di sinistra". Le cose stanno però diversamente. Sarebbe ora (se non ora, quando?, che, per la cronaca, oltre che il titolo di un bellissimo romanzo di Primo Levi, è un'espressione che proviene da un trattato dell'ebraica Mishna', il Pirke' Avoth) di cominciare a dirlo senza timidezze,........

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