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“When the music’s over, turn out the lights”.

Era il 1967 quando i Doors cantavano che quando la musica è finita bisogna spegnere le luci, creando uno dei ritornelli più famosi della storia del rock (psichedelico: era la generazione degli acidi e dell’Lsd). Da allora l’industria della musica ha vissuto una stagione senza precedenti, con una esplosione negli anni Ottanta e Novanta. Chi lo ha vissuto - anche distrattamente e senza particolare passione - lo ricorda comunque. Inutile negare che lo stesso sviluppo della società sia passato, in particolare in quei decenni, dalla musica. E’ stato il linguaggio della ribellione prima e della voglia di lasciarsi tutto alle spalle dopo, con una continua capacità di reinventarsi come l’araba fenice (penso, negli anni Novanta, al fenomeno grunge nato nei locali di Seattle, con i Pearl Jam e, purtroppo, con l’autodistruzione di Kurt Cobain dei Nirvana che ha seguito le orme di Jim Morrison).

Erano gli anni in cui, riprendendo un verso di Dostoevskij, Neil Young cantava: meglio andarsene con una vampata che spegnersi lentamente.

Cobain lo prese alla lettera.

Vi lascio giusto per il gusto di tornare per un altro attimo in quelle atmosfere la registrazione contenuta in Unplugged dei Nirvana di The man who sold the world, una interpretazione della canzone di David Bowie di cui lo stesso duca bianco rimane impressionato. Il disco vendette in pochi mesi 7 milioni di copie. Entrò a far parte di almeno un paio di generazioni adiacenti. Si distillò nell’immaginario del momento. Si infilò a suo modo nella storia degli anni Novanta creando un filo tra il mondo della Guerra fredda e il suo gemello dopo la caduta del muro di Berlino.

Bowie, dopo il successo di Unplugged, disse: “So bene che quanto canto The man who sold the world di fronte a un pubblico giovane (la aveva scritta nel 1970) pensano: che bello Bowie sta cantando una canzone dei Nirvana!”.

Fine dell’amarcord personale. So bene che ognuno ha la sua canzone.

Ma il punto era ricordare come la musica fino agli anni Novanta era potente, sia dal punto di vista sociale che economica. Poi è arrivato Internet e le canzoni sono state la prima vittima sacrificale della digitalizzazione: la fine della musica è stata, come la fine del lavoro, la fine del ceto medio, la fine del dibattito pubblico, la solita morte annunciata. Un esercizio di escatologia alla quale l’essere umano non riesce a rinunciare nonostante la storia ci insegni che l’unica legge sembra essere quella della termodinamica, anche fuori dal perimetro della fisica: nulla si crea o si distrugge, ma tutto si trasforma. Che la musica dovesse essere l’agnello da sacrificare all’apparente principio di libertà della rete era nei fatti: come tutto ciò che ha un valore, un prezzo e può essere trasformato in codici binari, anche i dischi sono stati risucchiati dalla gravità leggera degli 000011100001101010000000000...

Le canzoni avevano una sola colpa, un peccato originale: avevano già morso la mela della digitalizzazione con i compact disk. Un suono è la propagazione di un’onda nell’aria ed era già stato trasformato in impulsi elettrici con il telefono. Ma con il compact disk erano già passati ad essere dei file digitali. Una curiosità: sapete perché il formato dei primi compact disk era di 74 minuti? Perché il ceo della Sony, Norio Ohga, prese come parametro la Nona sinfonia di Beethoven. Grande persona. Si tratta di circa 650 milioni di byte. Un byte è formato da 8 bit. Il bit è l’informazione base, dunque nel codice binario lo 0 o l’1. Il che vuole dire che un byte può contenere 2 elevato all’ottava combinazioni. Fa 256. Sembrerebbero tante se non fosse che un team guidato da un italiano, Leonardo Chiariglione, non avesse inventato l’Mp3, il formato standard che ha spremuto decine di canzoni dentro un music player tascabile poco più grande di una chiavetta Usb.

Proprio perché la musica è stata la prima industria colpita e apparentemente affondata dalla digitalizzazione è interessante per tutti seguirne l’evoluzione: la sua resilienza, la sua capacità di adattarsi che sfiora il darwinismo, è la speranza per tutte le industrie fatte di diritti e contenuti di qualità coperti dal copyright. La musica è difatti tornata a far parlare di sé (grazie, con buona pace delle star attuali, soprattutto ai diritti delle canzoni degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta...). E si fa fatica a trovargli una adeguata valutazione: Kkr, uno dei fondi più grandi del mondo che ha tra i suoi consulenti anche Petraeus, l’ex capo della Cia, ha un catalogo di 62 mila canzoni che il gruppo ha acquistato nel 2021 per 1,1 miliardi di dollari (qui l’articolo del Financial Times per chi vuole approfondire i temi tecnici della vendita). Che la musica sia in salute lo dimostra anche il fatto che il rating dell’investimento è A. Più di alcuni Stati.

Il caso di Kkr non è isolato. Bruce Springsteen ha ceduto alla Sony nel dicembre del 2021 i diritti delle proprie canzoni per 550 milioni di dollari (è considerata la più grande valutazione per un singolo catalogo di un solo artista). Per Bob Dylan si è parlato di 150-200 milioni di dollari. I Pink Floyd hanno tentato di cedere i diritti delle proprie opere (compreso The Wall: 30 milioni di dischi venduti) per mezzo miliardo, senza però trovare un accordo con un acquirente. Another brick in the wall.

Per inciso, se è vero che la musica pirata è stata pura dinamite sulle fondamenta dell’industria musicale, non va dimenticato che un altro colpo venne dato da Steve Jobs: il fondatore della Apple, forte del lancio del proprio store musicale e dell’iPod, a lungo il singolo prodotto tecnologico più venduto della storia, pretese lo spacchettamento della musica e la possibilità per gli utenti di poter acquistare la singola traccia musicale per un dollaro. Per l’industria musicale fu l’ennesimo terremoto: capolavori a parte, come quelli citati, il disco era pensato come un prodotto da vendere in blocco. Con un paio di hit, due o tre cavalli di battaglia e il resto a scendere dal punto di vista qualitativo. Spacchettarlo fu un duro colpo, anche se con il tempo risolse il tema della vendita aumentando i gradi di libertà per l’acquirente che poteva così costruirsi la propria playlist.

Ps, le riflessioni sulla musica, sebbene significative per il mondo dei contenuti, non possono essere importate sic et simpliciter alle altre industrie, per un semplice motivo: il valore di una bella canzone è nella possibilità di poterla riascoltare all’infinito. Nemmeno il libro più bello del mondo, per esempio, può essere letto se non un paio di volte nella vita. Ecco il funzionamento di Spotify e affini: pochi centesimi per ogni stream. Ma se una canzone viene ascoltata centinaia di milioni di volte allora si produce un valore anche superiore alla vendita dei dischi. Ed ecco perché adesso a valere così tanto per il mercato sono proprio i cataloghi che non muoiono mai.

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13 dic 2023

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Perché i cataloghi musicali, da Springsteen a Bob Dylan, tornano a valere miliardi

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14.12.2023

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“When the music’s over, turn out the lights”.

Era il 1967 quando i Doors cantavano che quando la musica è finita bisogna spegnere le luci, creando uno dei ritornelli più famosi della storia del rock (psichedelico: era la generazione degli acidi e dell’Lsd). Da allora l’industria della musica ha vissuto una stagione senza precedenti, con una esplosione negli anni Ottanta e Novanta. Chi lo ha vissuto - anche distrattamente e senza particolare passione - lo ricorda comunque. Inutile negare che lo stesso sviluppo della società sia passato, in particolare in quei decenni, dalla musica. E’ stato il linguaggio della ribellione prima e della voglia di lasciarsi tutto alle spalle dopo, con una continua capacità di reinventarsi come l’araba fenice (penso, negli anni Novanta, al fenomeno grunge nato nei locali di Seattle, con i Pearl Jam e, purtroppo, con l’autodistruzione di Kurt Cobain dei Nirvana che ha seguito le orme di Jim Morrison).

Erano gli anni in cui, riprendendo un verso di Dostoevskij, Neil Young cantava: meglio andarsene con una vampata che spegnersi lentamente.

Cobain lo prese alla lettera.

Vi lascio giusto per il gusto di tornare per un altro attimo in quelle atmosfere la registrazione contenuta in Unplugged dei Nirvana di The man who sold the world, una interpretazione della canzone di David Bowie di cui lo stesso duca bianco rimane impressionato. Il disco vendette in pochi mesi 7 milioni di copie. Entrò a far parte di almeno un paio di generazioni adiacenti. Si distillò nell’immaginario del momento. Si infilò a suo modo nella storia degli anni Novanta creando un filo tra il mondo della Guerra fredda e il suo gemello dopo la caduta del muro di Berlino.

Bowie, dopo il successo di Unplugged, disse: “So bene che quanto canto The man who sold the world di fronte a un pubblico giovane (la aveva scritta nel 1970) pensano: che bello Bowie sta cantando una canzone dei Nirvana!”.

Fine dell’amarcord personale. So bene che ognuno ha la sua........

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