Gli azzurri nobilmente in ginocchio contro il razzismo ma senza onore alla fine della disastrosa partita con l’Atalanta

Si può forse provare, un paio di giorni dopo, a definire il perimetro del sentimento del tifoso al termine della disgraziata partita contro l’Atalanta. E probabilmente il tentativo è d’obbligo, perché è successo qualcosa e qualcosa di nuovo che in questa anomala, disperata stagione ancora non si era visto. Al di là del nobile e sfolgorante prepartita, con i calciatori in ginocchio a testimoniare la rabbia e il dissenso nei confronti del dilagante razzismo nella società e nel calcio, il cui orrendo e indegno imprimatur è stato inciso sulla pietra tombale della sentenza del caso Acerbi, non ci sono stati altri sentimenti in campo per quanto concerne la maglia azzurra.

Era una finale. Una prova senza ulteriore appello, più della partita col Barcellona, più di ogni altra giocata (male) quest’anno. La cosa era ben chiara ai cinquantamila che hanno rinunciato al pranzo di sabato santo, piegando il capo a un’assurda necessità televisiva. Era ben chiara alle centinaia di migliaia di tifosi davanti agli schermi, in Italia e nel mondo, che andrebbero rispettati anche perché tirano fuori denaro sonante, che mantiene in piedi questo circo traballante che è diventato il calcio italiano. Era ben chiara alla stampa e alla comunicazione in genere, che in tal senso aveva presentato la partita. Era ben chiara, almeno si spera lo fosse, alla società che date le disponibilità e la necessità di autofinanziamento non poteva prescindere, per mantenere qualche ambizione, dal piazzamento europeo che prima di questo indecifrabile match pareva ancora alla portata.
Non era chiara, come si è visto dalle prime battute, alla squadra e allo staff tecnico.

Si premette che chi scrive, come la stragrande maggioranza dei tifosi, vede solo il campo. Non è presente agli allenamenti, non è in grado di pesare le assenze per le soste e non c’è nello spogliatoio, né tantomeno agli incontri tra procuratori e calciatori, procuratori e società , società e staff tecnico, staff tecnico e calciatori. Chi scrive ignora, quindi, i tre quarti dell’iceberg. Ma è anche vero che il quarto che rimane visibile è quello che conta.
Quest’anno il Napoli ha perso molte partite, e molte ne ha pareggiate. Il rendimento interno è stato peggiore di quello esterno, per l’incapacità conclamata di sviluppare una fase offensiva decente e quindi di abbattere il muro che molte squadre vengono a erigere al Maradona. Eppure la tifoseria non ha fatto mai mancare un applauso, un coro, un supporto. Si percepiva la volontà di uscirne, un po’ di spirito di gruppo, il desiderio di superare le avversità di una stagione così clamorosamente inversa rispetto alla precedente.

Ogni singolo calciatore è stato oggetto di affetto e di sostegno. Siamo stati comprensivi e ci siamo adattati velocemente al tracollo, ben consapevoli che gli interminabili processi mediatici tesi a capire le cause e le motivazioni di questo incomprensibile cataclisma erano sostanzialmente inutili, perché se una squadra cambia tre allenatori in sei mesi, se acquista sette calciatori in due sessioni di mercato e nessuno dei tre allenatori ritiene di inserirne uno solo nella formazione titolare (non dite Traorè: se Zielinski fosse qui, l’ivoriano non vedrebbe il campo neanche pagando una quota dell’affitto), allora è difficile reperire un colpevole, o due, o tre. E comunque è un esercizio vano, se si deve puntare a salvare il salvabile.
I tifosi lo hanno capito, forse prima degli addetti ai lavori. E hanno appunto fatto i tifosi, che devono fare il tifo e riempire i settori ospiti degli ostili stadi avversari, pagare magliette e sciarpe e abbonamenti TV e onerosi biglietti e viaggi in treno e in aereo.

E allora, cos’è successo sabato scorso alle 14.15?
Perché quella rabbia, perché quei cori? Perché il malessere, il disinteresse dei giorni successivi? Perché non abbiamo voglia nemmeno di guardare le altre partite in TV, perché non visitiamo i siti e non leggiamo i giornali?
Semplice: perché per la prima volta in assoluto, a prescindere dal risultato e dall’ennesima sconfitta, molto più della delusione e dello sconforto per una classifica ormai evidentemente irrecuperabile, i tifosi non hanno visto in campo la propria squadra.

Nessun contrasto vinto, nessun impegno. Pochissimi falli fatti, poca gara, nessuna cazzimma come lo scorso anno. Mai uno che corresse in soccorso di un altro, difesa piazzata in modo intollerabile anche a livello di scuola calcio. Inferiorità numerica in ogni parte del campo. Il portiere, il vituperato a torto e maltrattato Meret, nettamente al di sopra del rendimento dei compagni: senza di lui il passivo sarebbe stato ben peggiore. Il multimilionario Osimhen annullato fino all’ultimo quarto d’ora da tale Hien, e poi inutilmente rabbioso sullo zero tre. L’avversario che ha segnato quasi suo malgrado, vedendosi consegnare dai nostri palloni gustosissimi e imprevisti.

Nessuna protesta, teste abbassate, niente rabbia e niente voglia. Nessun onore per il triangolo sulla maglia, come fosse stato rubato, come l’avessero vinto altri, come fosse caduto dal cielo. Come fosse il logo di uno sponsor secondario.

Insomma, il Napoli ha cominciato in ginocchio e ha finito in ginocchio
. Nobilmente all’inizio, senza onore alla fine. È questo il motivo dei cori, che sono stati come sempre rappresentativi. Chi era presente ha dato voce ai sei milioni di tifosi azzurri nel mondo. Non è questione di perdere o di vincere. È questione di non considerare la maglia azzurra (o bianca o nera o arcobaleno o paonazza che il marketing imponga) un fastidio di passaggio, con la testa al biglietto aereo per le festività pasquali o per le vacanze estive e poi verso una nuova destinazione. Questo la società non deve tollerarlo, perché i tifosi non sono clienti e il calcio non è un detersivo.

I tifosi danno passione. E in cambio pretendono impegno. Non vittoria: impegno. Almeno quello.Â

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2 aprile 2024 ( modifica il 2 aprile 2024 | 07:54)

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Il Napoli che abbiamo visto non era la nostra squadra

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02.04.2024

Gli azzurri nobilmente in ginocchio contro il razzismo ma senza onore alla fine della disastrosa partita con l’Atalanta

Si può forse provare, un paio di giorni dopo, a definire il perimetro del sentimento del tifoso al termine della disgraziata partita contro l’Atalanta. E probabilmente il tentativo è d’obbligo, perché è successo qualcosa e qualcosa di nuovo che in questa anomala, disperata stagione ancora non si era visto. Al di là del nobile e sfolgorante prepartita, con i calciatori in ginocchio a testimoniare la rabbia e il dissenso nei confronti del dilagante razzismo nella società e nel calcio, il cui orrendo e indegno imprimatur è stato inciso sulla pietra tombale della sentenza del caso Acerbi, non ci sono stati altri sentimenti in campo per quanto concerne la maglia azzurra.

Era una finale. Una prova senza ulteriore appello, più della partita col Barcellona, più di ogni altra giocata (male) quest’anno. La cosa era ben chiara ai cinquantamila che hanno rinunciato al pranzo di sabato santo, piegando il capo a un’assurda necessità televisiva. Era ben chiara alle centinaia di migliaia di tifosi davanti agli schermi, in Italia e nel mondo, che andrebbero rispettati anche perché tirano fuori denaro sonante, che mantiene in piedi questo circo traballante che è diventato il calcio italiano. Era ben chiara alla stampa e alla comunicazione in genere, che in tal senso aveva presentato la partita. Era ben chiara, almeno si spera lo fosse, alla società che date le disponibilità e la necessità di autofinanziamento non poteva prescindere, per mantenere qualche ambizione, dal piazzamento europeo........

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