Sabato 28 ottobre, i tank israeliani entrano a Gaza. Sul sito di Bbc Arabian una ragazza palestinese racconta del suo parto sotto le bombe. Già fuggita da Gaza nord dopo l’ordine di evacuazione israeliano, una figlia di quattro anni lasciata ai parenti, Jumana, giornalista free lance, 25 anni, è in un rifugio di profughi quando cominciano le doglie. Deve raggiungere un ospedale, ma il più vicino è gremito di feriti. Ce n’è un altro, più lontano, ma nessuno accetta di portarcela: i taxisti, pochi, hanno paura ad andare in quella direzione, e le ambulanze hanno altro da fare, a Gaza, in questi giorni.

Le doglie incalzano, sempre più vicine, nelle strade piene di macerie. Finalmente Jumana riesce a raggiungere un ospedale, pure affollatissimo. Il travaglio nel fragore dei bombardamenti, vicini, nell’angoscia dell’altra figlia lontana. E infine tra le barelle dei feriti la bambina viene al mondo: “Il suo primo vagito mi ha ricordato che siamo vivi”, dice la giovane palestinese. (Quel primo vagito che trafigge la sala parto, e che chi non ha mai ascoltato non sa. Come una lama, acuto, irrompe, buca l’aria: ma non è morte, è vita invece, e chi lo sente è preso da un commosso stupore).

Dunque, leggo, Talia nasce il 13 ottobre. Sussulto a questa data: era il compleanno di mia madre. Anche lei venne al mondo sotto alle bombe. Londra, 13 ottobre 1915, cinque Zeppelin nemici col buio arrivano sul cielo della città e bombardano. Quarantuno morti e un centinaio di feriti tra Londra e i sobborghi, quella notte. In una casa dalle parti di Vauxhall Bridge mia madre stava nascendo. Anche il suo primo vagito spaccò l’aria, più forte per qualche istante delle esplosioni.

Non pareva un momento felice per nascere per quella figlia di italiani, dentro alla Prima guerra mondiale. E tuttavia mia madre affrontò, adulta, una seconda guerra, sposò un ragazzo tornato dal Don, ebbe due figli, e poi tardi, quando non se l’ aspettava più, un’ultima, che sono io. Oggi avrebbe quattro nipoti e due – per ora – pronipoti piccolissimi. Quanta vita, da quel vagito sotto agli Zeppelin.

Come quello di Talia, a Gaza, oltre cent’anni dopo. E certo nel frattempo milioni di bambini sono morti in guerre vicine o lontane, e dimenticate. Ma intanto molte bambine sono cresciute e hanno messo al mondo i loro figli - quasi disfando, ad ogni parto, la tela che la violenza e la morte tracciavano loro attorno. Le madri disfano la morte, come tessendo una ostinata tela di Penelope.
La coincidenza di una data mi fa un poco sperare, nell’angoscia di Gaza sotto attacco, del premeditato massacro del 7 ottobre nei kibbutz israeliani, di un Medio Oriente che pare solo nell’attesa di una scintilla, per prendere fuoco. Certo, oggi ci sono armi che potrebbero annientarci in pochi minuti, ci sono, in diversi luoghi del pianeta, devastanti ordigni pronti a partire, su missili a lunghissima gittata. A Gaza sono stati trovati arsenali di bombe in grado di sviluppare un calore di 3000 gradi.

Cerchi altro sul web, o cambi canale, spegni. Occorre un Dio in cui credere, per reggere questo confronto. Ma bisogna avere fede, davvero. Come quella mia nonna che partorì sotto le bombe, e come l’altra, a Parma, che in lunghe notti insonni supplicò che suo figlio tornasse dal Don: e tanto insistette, ogni giorno, che Dio alla fine la esaudì.

Talia e quanti bambini come lei, e migliaia di donne incinte a Gaza, inermi in questi feroci giorni. Alcuni sopravviveranno, avranno figli, continueranno nei loro discendenti, in quelle somiglianze – gli occhi, o il colore dei capelli - che passano silenziose nei geni, attraverso il tempo. Che mistero, il destino dei bambini nati nel fondo di una guerra, quel loro primo respiro come un grido, e una sfida.

Vivranno - se le terribili armi che intanto abbiamo saputo fabbricare resteranno inerti, con il loro carico di morte. Cerchiamo di non pensarci, non è vero? ll web è una folla di notizie futili, Grandi Fratelli, vip che si lasciano, cose così. Pur di non pensare. (Pregare, a che serve?)

Pregare invece come le nostre nonne, con la stessa pervicacia, come si domanda che un figlio molto malato guarisca. Che grazia, in questo buio, tornare almeno a esserne capaci.



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QOSHE - Editoriale Nati in fondo alla guerra. Che grazia, questo buio - Marina Corradi
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Editoriale Nati in fondo alla guerra. Che grazia, questo buio

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29.10.2023

Sabato 28 ottobre, i tank israeliani entrano a Gaza. Sul sito di Bbc Arabian una ragazza palestinese racconta del suo parto sotto le bombe. Già fuggita da Gaza nord dopo l’ordine di evacuazione israeliano, una figlia di quattro anni lasciata ai parenti, Jumana, giornalista free lance, 25 anni, è in un rifugio di profughi quando cominciano le doglie. Deve raggiungere un ospedale, ma il più vicino è gremito di feriti. Ce n’è un altro, più lontano, ma nessuno accetta di portarcela: i taxisti, pochi, hanno paura ad andare in quella direzione, e le ambulanze hanno altro da fare, a Gaza, in questi giorni.

Le doglie incalzano, sempre più vicine, nelle strade piene di macerie. Finalmente Jumana riesce a raggiungere un ospedale, pure affollatissimo. Il travaglio nel fragore dei bombardamenti, vicini, nell’angoscia dell’altra figlia lontana. E infine tra le barelle dei feriti la bambina viene al mondo: “Il suo primo vagito mi ha ricordato che siamo vivi”, dice la giovane palestinese. (Quel primo vagito che trafigge la sala parto, e che chi non ha mai ascoltato non sa. Come........

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